Andrea Dusio
«Noi pittori ci pigliamo la licenza che si pigliano i poeti e i matti». È quanto tentò di spiegare Paolo Caliari detto il Veronese davanti al Tribunale del Sant'Uffizio, in quello che resta il caso più celebre di intervento diretto dell'inquisizione contro l'opera di un artista, il processo che nel 1573 ebbe per oggetto il Convitto in Casa di Levi, realizzato per i Domenicani della Basilica di San Giovanni e Paolo a Venezia.
Il Veronese era allora uno degli artisti più stimati e pagati in terra veneta, e la sua fama, oltre che ai cicli decorativi lasciati nelle ville palladiane e nelle Scuole, era in buona parte legata alle Cene, smisurati teleri di diversi metri, in cui metteva in scena fastosi banchetti ispirati alle feste dell'aristocrazia veneta, usando gli episodi del Vangelo come mero spunto per narrazioni ricche di debordante aneddotica e personaggi che nulla avevano a che fare coi testi sacri: paggi, valletti, musici, buffoni, mescolati agli invitati.
Così era stato per le Nozze di Cana dipinte nel 1563 per il refettorio del convinto benedettino sull'isola di San Giorgio Maggiore, la tela oggi esposta al Louvre nella stanza della Gioconda. La fortuna di quell'opera gli aveva procurato nel 1571 la commissione per la realizzazione di un'Ultima Cena, con cui i Domenicani intendevano sostituire un dipinto di Tiziano andato distrutto. Ma quando il pittore svelò il telero al priore di San Zanipolo, questi si avvide che la scena non somigliava in alcun modo alla raffigurazione del cenacolo. Veronese aveva infatti riempito la scena di personaggi incongrui alla narrazione, e l'aveva ambientata entro una sontuosa architettura palladiana. Molti dei convitati volgevano addirittura le spalle al Cristo, impegnati in una fitta conversazione, senza dare alcuna importanza al mistero che si stava compiendo alla loro presenza. Il Veronese aveva inizialmente rifiutato di modificare il dipinto, e, secondo il verbale che è arrivato sino a noi, nel difendersi spiegò: «Michel Agnolo in Roma, dentro la Cappella Pontifical, vi à depento il nostro Signor Gesù Cristo, la sua Madre et S. Zuane, S. Piero e la Corte Celeste, le quali sono fatte nude, dalla Vergine Maria in poi, con atti diversi, con poca riverenzia». Come a dire. «C'è chi ha fatto peggio di me». Fu condannato a correggere a proprie spese i particolari indecenti secondo le indicazioni degli inquisitori, ma se la cavò con un brillante escamotage: cambiò il titolo dell'opera, in Cena in casa di Levi, eliminando il motivo principale di scandalo, l'impossibilità di riconoscere nella tela una rappresentazione canonica dell'Ultima Cena.
Quanto ai nudi del Giudizio Universale, fatti coprire per ordine della Congregazione del Concilio di Trento, va ricordato che la censura, ordinata nel 1564, cominciò dopo la morte di Michelangelo nel 1565, e che a questi non venne mossa alcuna formale da parte della Curia Romana. A contestare l'opera furono all'inizio voci eterogenee, dall'Aretino al cerimoniere di Paolo III Biagio da Cesena, sino ad Andrea Gilio, che ne fece il punto centrale dei suoi dialoghi intitolati Degli errori e degli abusi de' Pittori circa l'historie. Ma anche sotto il pontificato di Paolo IV Carafa (1555-1559), nel momento di massima pressione sul tema dell'ortodossia delle immagini religiose, a Michelangelo fu risparmiata l'onta di un procedimento davanti al Santo Uffizio.
La Chiesa ha insomma esercitato, sempre, una prudenza superiore a quanto si creda nel giudicare e censurare le opere pittoriche. In qualche caso a evitare un processo fu, più che la volontà di proteggere l'artista o l'opera, il dubbio che si potesse risalire a chi aveva ispirato determinate immagini.
È il caso degli affreschi lasciati dal Pontormo nel coro di San Lorenzo a Firenze, ispirati alle teorie di Juan de Valdés, il riformatore spagnolo la cui teoria, della giustificazione per sola fede ebbe profonda eco presso la corte medicea, negli ambienti vicini all'arciduchessa Eleonora da Toledo, moglie di Cosimo I. Il ciclo venne commissionato nel 1545 e fu scoperto però solo nel 1558, quando il clima politico del quarto decennio, che vedeva Firenze e Roma contrapposte, era mutato radicalmente. Le masse di nudi informi, i corpi dei morti affogati nella scena del Diluvio, non piacquero a nessuno. Qualcuno accusò il Pontormo di «aver chancrato la divozione di quella chiesa». E non a caso gli affreschi vennero distrutti nel 1738. Ma l'elemento di maggior interesse è il racconto del cantiere che Vasari inserisce nell'edizione delle Vite del 1568: «Avendo egli adunque con muri, assiti e tende turata tutta la cappella e datosi tutto alla solitudine, la tenne per l'ispazio di undici anni serrata». Questa la tesi: nessuno aveva potuto vedere gli affreschi prima che fossero rivelati, tanto meno il granduca Cosimo. Dunque la responsabilità della raffigurazione ricadeva sul solo artista. In merito a cui il Vasari aggiungeva: «Non mi pare () in niun luogo aver osservato né ordine di storia, né misura, né tempo, né varietà di teste, non cangiamenti di colori di carni, et insomma non alcuna regola di proportione, né alcun ordine di prospettiva; ma pieno ogni cosa d'ignudi, con un ordine, disegno, componimento, colorito e pittura fatta a suo modo, con tanta malinconia e tanto poco piacere di chi guarda l'opera...», a rimarcare che gli affreschi non richiamavano un progetto iconografico intellegibile. Mentre in realtà a ispirare il ciclo era stato un testo di catechismo del Valdés, pubblicato proprio nel 1545 e rielaborato dall'accademico Benedetto Varchi. Così è nata la leggenda, favorita dalla lettura dei suoi taccuini di ipocondriaco, della pazzia di Pontormo, a nascondere gli sbandamenti ideologici dei suoi committenti.
«La licenza che si pigliano i poeti e i matti» veniva insomma concessa all'artista. La deviazione dall'iconografia no, perché poteva essere usata a prova del pensiero eretico del suo committente. E mandare questi davanti all'Inquisizione, in luogo dell'artista.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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