Viaggio all'inferno per cercare la giustizia che "ripara" l'uomo

Il criminologo Adolfo Ceretti racconta il lungo e difficile percorso per provare a riabilitare i colpevoli

Viaggio all'inferno per cercare la giustizia che "ripara" l'uomo

Lo incontrai per caso, una sera, a una riunione alla quale non dovevo prendere parte, e dopo averlo ascoltato per cinque minuti desiderai ardentemente diventare suo amico. Per me fu come avere scoperto un fratello sconosciuto. Scommetto che è anche interista, dissi tra me. Lo era. Goethe le chiamò affinità elettive. Non so per lui (non gliel'ho mai chiesto e non lo voglio sapere) ma per me si trattò di questo.

Adolfo Ceretti è una delle non moltissime persone che illuminano e danno prestigio al nostro Paese. Sono felice di essere italiano anche perché c'è lui.

Per chi non lo conosce, dirò che Adolfo Ceretti è un criminologo di fama mondiale, professore ordinario all'Università Bicocca di Milano e visiting professor all'Università Federale di Rio de Janeiro. A lui dobbiamo, tra le altre cose, l'introduzione in Italia - con diversi contributi originali - dell'idea di giustizia riparativa. La sera in cui lo conobbi era appunto di questo che si parlava.

La sua vicenda umana, intellettuale e professionale si dispiega in uno dei libri più belli e importanti di questi anni, Il diavolo mi accarezza i capelli, scritto con l'aiuto redazionale, sempre umile e intelligente, di Niccolò Nisivoccia e edito da Il Saggiatore (pagg. 336, euro 25).

Per giustizia riparativa s'intende l'istituzione di percorsi volti a leggere il reato non secondo le azioni commesse (che sono l'oggetto della giustizia ordinaria, che accerta e commisura delitti e pene) ma secondo le persone che le hanno commesse e subite.

Un buco nero nella giustizia ordinaria è sempre stato quello relativo alle vittime: la sola giustizia in cui chi ha subito un torto può sperare è di vedere punito il colpevole. Per lui non c'è altro.

Ma gli anni del terrorismo maturarono in Ceretti la persuasione che questo non bastasse: era necessario offrire a chi aveva ucciso e ai familiari di chi era stato ucciso - gli uni come gli altri entrati poi in un tunnel di ira, di rancore, di risentimento, di depressione, di esclusione sociale da cui era quasi impossibile uscire - la possibilità di rimettersi in cammino.

La giustizia riparativa non condanna, non assolve, non giudica. Cerca, attraverso un difficile lavoro di mediazione, sempre in stretto rapporto con la legge, di offrire a vitime e colpevoli la possibilità di un cammino, di un avvicinamento, di una lettura nuova delle proprie azioni e delle proprie posizioni, di uno spostamento dello sguardo su di sé.

Le azioni possono edificare un uomo oppure spezzarlo, e un uomo spezzato rimane spezzato anche dopo anni di carcere, se non interviene per lui una possibilità nuova.

Se solo un dio può rifare veramente un uomo da capo, la giustizia umana può almeno oltrepassare l'aspetto punitivo e cercare di riparare le sue azioni, aiutandolo a spostarsi dalla catena di effetti che il crimine (per chi l'ha commesso) e il rancore (per chi l'ha subito) hanno stretto intorno a lui.

Chiamato a condurre questo lavoro di mediazione in alcuni dei casi più celebri della nostra storia recente (da Garlasco a Omar e Erika), Adolfo Ceretti ha messo in gioco questa idea rischiando tutto sé stesso. Mi è capitato un paio di volte di vederlo, reduce da una seduta di mediazione: appariva non solo sfinito, ma distrutto interiormente, perché mantenere l'equidistanza in casi di rapporto tra vittima e carnefice richiede la capacità di rischiare sé stessi in toto, mente e cuore.

Il diavolo mi accarezza i capelli è un libro eccezionale per tante ragioni, compresa la grazia e la discrezione con la quale l'autore ci introduce a una scommessa che fu, alla fine, la stessa di Dante: attraversare l'inferno lasciandosene toccare in profondità ma poi uscirne con qualcosa di prezioso per tutti: un frammento di libertà in più.

È un libro eccezionale per la densità dell'esperienza umana che racconta, per la tenacia con la quale l'autore non separa la vita professionale da quella personale, e per la tensione di cui è testimone: quella di far sì che tutto ciò di cui siamo fatti - incluse tutte le nostre fragilità - possa essere fattore di costruzione per noi stessi e di utilità per il mondo (che è, poi, la definizione più puntuale della parola etica, la quale non consiste certo in un sistema di regole).

Consiglio poi questo libro a tutti gli scrittori. Non solo e non tanto per la puntuale descrizione delle complessità procedurali ma perché mette a tema la complessità vera, quella delle azioni umane, la loro non-riducibilità a un solo criterio di lettura (giuridico, psicologico, psicanalitico, sociologico, politico, religioso ecc.). È importante che uno scrittore giunga alla semplicità, ma è anche bene ricordarsi che raccontare è un'azione matematica, e che la matematica è difficile fin dai suoi fondamenti.

Infine, consiglio questo libro perché è, fin dalle prime pagine, un libro pieno di incontri.

Il destino non è l'opera di un dio-ingegnere o di un dio-orologiaio, ma si realizza attraverso incontri spesso causali, che possono generare amicizie, fascino ma anche devastazioni. La quantità e la ricchezza degli incontri di una vita danno una buona misura dell'uomo. E gli incontri si vedono in filigrana sulla faccia, nelle parole, nello sguardo di quell'uomo. Che ne parli o no, è secondario.

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