Un viaggio tra i ragazzi degli anni Novanta (che girano nel vuoto)

Giovanni Za in "Stupidi e coraggiosi" racconta i giovani vissuti nel vuoto dopo l'epoca degli yuppie

Un viaggio tra i ragazzi degli anni Novanta (che girano nel vuoto)
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Non è che io abbia mai sopportato tutta la retorica sulle generazioni, dove ognuno parla della sua generazione come fosse una cosa così importante, soprattutto in letteratura. Se le generazioni contassero qualcosa sarebbe irrilevante continuare a leggere I demoni di Dostoevskij, e i pensieri di Leopardi sarebbero generazionali, non invece universali come sono, proprio perché della sua generazione se ne fregava, era più interessato a pensare alla natura e all'essenza dell'essere umano. Tuttavia a livello culturale e individuale le generazioni qualcosa ci dicono, e una delle ultime generazioni più sfigate quanto a immaginario è quella degli adolescenti degli anni Novanta.

Gli adolescenti degli anni Novanta hanno vissuto troppo piccoli gli anni Ottanta, che ancora oggi permeano il nostro immaginario, quando vivemmo l'avvento dei primi videogiochi, dei primi personal computer, senza parlare di tutta la cinematografia (dominata da Spielberg e George Lucas) e la musica pop più scatenata, da Michael Jackson a Prince, ai Queen. Non sono neppure Millennials, appartenenti cioè alla nascita del mondo digitale che viviamo tutt'oggi. Non sono né carne né pesce.

Questa generazione prova a raccontarla Giovanni Za, nel suo romanzo d'esordio Stupidi e coraggiosi (Fandango) volendone fare appunto un «affresco», come i postminimalisti (Ellis, Leavitt e compagnia bella) fecero degli anni Ottanta, un meno di zero un decennio dopo, e è ancora meno di meno di zero. Una sfida ardua, perché mentre Raf cantava Cosa resterà di questi anni Ottanta, sbagliando in pieno, dei Novanta, culturalmente, nessuno sa bene cosa dire. Ma Za prova a colmare il vuoto, portandoci nel mondo di un gruppo di liceali vicini alla maturità, senza internet, senza cellulari, ancora con i VHS (tutto ciò che negli anni Ottanta era una elettrizzante novità, nei Novanta non più), sospesi tra due mondi senza neppure saperlo. Si occupano le scuole (anzi si okkupano), senza crederci molto, anche lì prendendo a prestito i moti rivoluzionari dei decenni precedenti ma senza prenderli sul serio, tutto è una pantomima: nella scuola occupata si stilano programmi di controcultura che nessuno ha veramente voglia di seguire.

Per gli storici gli anni Novanta in Italia sono quelli di Tangentopoli, della discesa di Berlusconi in politica, del comunismo che cerca di diventare qualcos'altro (la Cosa), ma cosa poteva interessare a degli adolescenti? Si discute di imperialismo, si istituiscono Soviet, come fossero giochi di società, e anche Che Guevara fa sbadigliare, meglio pensare a Marylin Manson e alle Spice Girls, perché «il cartellone degli eventi era un bluff evidente a tutti».

Ma dunque l'impresa di Za è riuscita? Bravo è bravo, benché manchi di una trama solida (è il rischio degli affreschi se non sei Victor Hugo), alla fine tra i troppi personaggi allo sbando si ha la sensazione di girare a vuoto, ma allo stesso tempo questa sensazione rispecchia molto bene quei tempi. Che vengono ricordati con nostalgia, come sempre quando si guarda indietro alla propria giovinezza, chiamandola infine, appunto, la propria generazione.

Quanto all'idea di essere stati traditi dal proprio tempo, non è proprio una novità. Basti pensare che alla fine degli anni Trenta dell'Ottocento Balzac pubblicava un romanzo che riusciva a cogliere il senso di passaggio di una generazione in quella che all'epoca era la modernità (e per molti versi lo era). Si intitolava Le illusioni perdute, appunto, e se erano già perdute per Balzac, figuriamoci dopo.

Cosa che in fondo hanno continuato a lamentare tutte le generazioni successive. Si sentono perfino persone che rimpiangono i tempi del dopoguerra e della ricostruzione e del boom economico, se però andiamo a quegli anni c'erano altre persone che rimpiangevano decenni precedenti (l'essere umano è un animale nostalgico). Comunque sia sempre meglio i giovani degli anni Novanta che quelli degli anni Sessanta e Settanta che sono rimasti rintronati dall'ideologia fino ai giorni nostri (prima in forma di tragedia, poi in forma di farsa, per dirla con il compagno Marx).

Ma ancora meglio Marcel Proust, che durante la Prima Guerra mondiale non aveva tempo di occuparsi delle ansie della sua generazione, il suo Alla ricerca del tempo perduto è un tempo assoluto (tant'è che della prima guerra mondiale non c'è traccia, evento trascurabile per uno scrittore che punta all'eternità), è la tragedia esistenziale della fine della giovinezza e della vita in generale, delle ansie generazionali non poteva fregargliene di meno.

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