Viaggio nel cuore di tenebra della feroce «Kampuchea»

Patrick Deville narra l'inferno creato dai khmer rossi. Ma se ne fa affascinare, come tanti intellettuali...

Viaggio nel cuore di tenebra della feroce «Kampuchea»

Alcuni giorni fa i giornali italiani hanno riportato in una cosiddetta breve nelle pagine degli Esteri, l'ultima sentenza con cui il Tribunale speciale dell'Onu ha chiuso il processo relativo ai crimini dei khmer rossi in Cambogia. La prima udienza aveva avuto luogo nel 1997, all'incirca vent'anni dopo la caduta del regime khmer a opera dell'esercito vietnamita, un caso tipico di guerra fra opposti comunismi, e nel quarto di secolo in cui il tribunale ha espletato il suo mandato sono stati solo tre i capi della Kampuchea democratica, questo il suo nome ufficiale, condannati all'ergastolo o a lunghe detenzioni, essendo esclusa la possibilità della pena capitale. I morti di quel regime ammontano a circa un milione e settecentomila, una sorta di genocidio autoctono di massa, di una radicalità che lascia senza fiato, anche chi in Occidente quanto a violenza distruttiva non si è fatto mancare nulla.

La Cambogia, e il silenzio di cui è stata, allora come ora, per lo più circondata, è del resto una cartina di tornasole di quella componente maggioritaria dell'opinione pubblica occidentale che nel 1975 vide nei giovani pipistrelli cambogiani, vestiti di nero dal berretto alla Mao in testa ai sandali alla Ho Chi Minh di gomma ai piedi, la purezza della Rivoluzione che prendeva il posto del corrotto regime di Lon Nol. Cosa quella purezza potesse significare e fino dove potesse arrivare non se lo chiese allora nessuno: quando cominciarono a filtrare le voci dello sterminio che andava perpetrandosi, l'intellighenzia progressista e occidentale le derubricò a «falsi della reazione» al soldo della Cia Chi ne voglia sapere di più può andare a leggersi il mea culpa che Tiziano Terzani scrisse anni dopo quella tragedia (Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia).

In quella ubriachezza ideologica che negli anni Settanta ebbe tanta parte in Europa, gli intellettuali francesi - giornalisti, professori, scrittori-, così come i sedicenti studenti rivoluzionari francesi che, fra una marcia di protesta e un sit-in contro la guerra in Vietnam, ne leggevano la prosa fremente di fervore rivoluzionario, si distinsero particolarmente. Erano i più entusiasti, erano i più radicali. Un eco di quel clima lo si può singolarmente trovare in Kampuchea (Nottetempo, pagg. 275, euro 17; traduzione di Filippo D'Angelo), di Patrick Deville, che oggi ha 64 e all'epoca, ventenne, si trovava fra quegli studenti. Si tratta di un reportage in forma di romanzo, o di n romanzo in forma di reportage, uscito in Francia una decina di anni fa, quando sul banco degli imputati del Tribunale dell'Onu c'era l'ex khmer rosso Duc, già responsabile dell'S-21, luogo di tortura dell'allora potere khmer e dove morirono 12mila cambogiani.

Direttore della Maison des Écrivains Ètrangers et des Traducteurs (Meet), Deville è in Francia, e non solo, un autore super-premiato e molto letto, nonché un perfetto esemplare di quella categoria di scrittori-avventurieri, ovvero tentati dall'azione, che sempre in Francia ha una tradizione illustre. Lo è al suo meglio, perché ha una scrittura ricca e insieme originale, colta nel suo elegante citazionismo, «la letteratura è una citazione di citazioni», attento alle sfumature come ai dettagli. E lo è al suo peggio, quando cioè la retorica dell'avventuriero gli prende la mano con tutti i tic che essa comporta: il whisky e il sudore, il sangue e l'oppio, la torcia elettrica e i monsoniUn giornalista intelligente e giramondo, Carlo Lizzati, nel darne conto su Repubblica, ha giustamente parlato di «uno sguardo inquinato da un preconcetto eroico, che è anche un'emozione romanzesca», uno «sguardo sempre auto-compiaciuto» Più in generale, il tutto si inscrive nel cosiddetto orientalismo, il compiacimento europeo nel leggere l'Oriente usando i paraocchi dell'Occidente, senza cioè sforzarsi di comprenderlo per quello che è. Il che, come è noto, alla lunga ha conseguenze disastrose.

Restando a Kampuchea e al suo ruotare avanti e indietro nei secoli intorno a quella che un tempo si chiamava Indocina, ovvero Thailandia e Vietnam, Cambogia e Laos, a parziale giustificazione delle ossessioni che lo compongono, e lasciando da parte i trombonismi che qui e là lo deturpano, va detto che appunto l'Indocina fu per molte generazioni francesi una sorta di loro Far West incantato, più che selvaggio. Sarà l'esploratore Henri Mouhot a riportare a metà Ottocento all'attenzione e alla conoscenza del mondo la civiltà khmer dei templi di Angkor Wat. È l'ufficiale di marina Garnier a stabilire la cartografia del fiume Mekong; è l'avventuriero David de Mayréna a divenire alla fine del secolo re dei Sedang, una tribù sugli altopiani, dietro le montagne dell'Annam, con tanto di inno, moneta, francobolli e divisa da parata

E ancora, è l'ufficiale di marina e scrittore Pierre Loti l'autore di Il pellegrino di Angkor, con quella sua frase, «In fondo alle foreste del Siam ho visto la stella della sera levarsi a Angkor», che colpirà talmente la fantasia di un André Malraux quindicenne da spingerlo un decennio dopo ad andare in Cambogia in cerca di statue khmer da trafugare, essere arrestato e fondare, in seguito, a Saigon un giornale anticolonialista.

Infine, per i francesi, l'Indocina è Dien Bien Phu, l'epopea della sconfitta, il basco rosso dei parà, il lino bianco e il cotone cachi delle serate in veranda, l'intreccio anche carnale fra Oriente e Occidente, le boyesses, il meticciato, i gesti esemplari, l'onore senza gloria, la gloria senza vittoria. Di tutti i conflitti del XX secolo, quello di Indocina fu il più anacronistico e il più romantico: mise fine a un secolo e passa di dominazione anche cieca, anche ottusa, anche corrotta, eppure a suo modo illuminata da una passione, da una fascinazione culturale, psicologica, per molti versi erotica, da cui i francesi rimasero sedotti, nello stridente contrasto fra semplicità e raffinatezza, povertà e ricchezza, natura incontaminata e sporcizia. Alla Francia rimarginare quella ferita è costato decenni. Quei territori d'oltremare appartengono alla sua memoria storica, fanno parte del suo album geografico ed esistenziale e sotto questo profilo Kampuchea e il suo autore sono l'ultimo anello di una lunghissima catena.

C'è però ancora un elemento che rende particolare sia il libro sia il suo perché. In maniera ambigua, Deville definisce la rivoluzione di Phnom Penh «un vertice, la più bella e la più intransigente, la tabula rasa assoluta. Una rivoluzione perfetta quanto un esperimento di laboratorio». «Noi che l'abbiamo tanto sognata» dice riferendosi al sé stesso ventenne di un tempo e alla rivoluzione come materia di quel sognoChe cosa il tutto avesse a che fare con «la fraternità e l'eguaglianza fra gli uomini» a cui Deville fa sbadatamente riferimento, non è chiaro, a meno che non si riferisca a un'eguaglianza cimiteriale, e va da sé che resta insopportabile questo compiacimento intellettuale per cui in corpore vili si fanno esperimenti di laboratorio, l'umanità come cavia in nome non si sa bene di che, per conto non si sa bene di chi, una sorta di morbosità compiacente grazie alla quale si denunciano gli orrori ma non si riesce a nascondere la complice ammirazione per il boia

Su una cosa Deville ha però ragione: i rivoluzionari khmer parlavano francese, avevano fatto il liceo francese di Phnom Penh erano poi andati a studiare a Parigi Al momento del suo interrogatorio, il boia Duch recita la fine di una poesia di Alfred de Vigny, La morte del lupo: «Gemere, piangere, pregare è egualmente indegno/ come me, soffri e muori senza parlare»... Sarà la collusione fra un pensiero occidentale illuminista corretto in salsa comunista, Rousseau più Marx, e il pensiero buddista a scatenare l'inferno khmer in Cambogia. «La società khmer è una società in cui la nozione di persona è assente: l'essere umano non è altro che un aggregato di energie, contingente, temporaneo, senza soggetto, la vita è solo un periodo di purificazione».

È quanto François Ponchaud, l'autore di Cambogia anno zero, il primo libro ad aver raccontato, già nel 1977, l'auto-genocidio cambogiano senza che nessuno gli credesse, spiega allo stesso Deville, con un'aggiunta significativa: «Bisognerebbe ricordarsi che la nozione dei Diritti dell'Uomo non è universale, ma legata alla cultura giudeo-cristiana. Come la democrazia i diritti dell'uomo non possono essere decretati, perché sono il frutto di una lunga maturazione, spesso caotica».

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