Una vita per i libri fra devozione assoluta e giudizi sarcastici

Il critico scrisse monografie capitali su alcuni classici. E bacchettò molti suoi contemporanei

Una vita per i libri fra devozione assoluta e giudizi sarcastici

Con Pietro Citati, se ne va una parte decisiva della civiltà letteraria del Novecento. Citati era un uomo del passato. Ed era un uomo dell'assoluto. Nessuno come lui era lontano dal chiacchiericcio dei media, dei social, del mondo virtuale. Umanista, cultore dei classici, credeva nella forza della Letteratura, e nessuno come lui ha vissuto sino all'ultimo, con coerenza eroica, nella dedizione all'universo dei libri.

Critico sui generis, ha scritto migliaia di pagine su autori che amava, cercando di coglierne l'essenza stilistica e spirituale, e in qualche modo fagocitandoli nella propria scrittura, agile e colorata, metamorfica e sapiente. Un suo libro capitale, con grandi affondi interpretativi mitico-simbolici è quello su Goethe, del 1970. E poi Citati puntò la sua attenzione su Tolstoj: con il volume a lui dedicato vinse nel 1984 lo Strega. E via via su Manzoni, Katherine Mansfield, Zelda e Scott Fitzgerald, Proust, Kafka, Omero, Leopardi, Cervantes... Alle monografie, vanno accostati i saggi raccolti in volume, per tutti Il tè del cappellaio matto, del 1972, e gli articoli di giornale, infiniti, sparsi via via sui quotidiani maggiori, a volte troppo lunghi, un po' paludati ma sempre animati da una passione fervente. L'Elogio di Dickens, contenuto nel Male assoluto, è l'esempio di una straordinaria capacità di leggere anche autori fuori dal canone maggiore e di mostrarne tutta la complessità espressiva.

Un altro interesse di Citati è stato quello per i testi biblici: laico - termine che poi confessò di detestare - sino ai trent'anni, finita la sua esperienza alla Normale di Pisa, covo di togliattiani e marxisti ortodossi sino al peggior dogmatismo, si riavvicinò a una visione religiosa e spirituale della vita. E il suo libro dedicato alla mistica islamica e al Sufismo, intitolato La primavera di Cosroe, del 1977, per me significò allora il primo invito a leggere autori e testi che poi sarebbero diventati parte integrante della mia esperienza poetica e intellettuale.

Quando affrontò il romanzo, con Storia prima felice, poi dolentissima e funesta, lo fece da memorialista e in omaggio alle vicende delle proprie famiglie di origine, con effetti di un nitore un po' estenuato. Non ebbe seguito. E sino alla fine Citati ha continuato a scrivere sulla sua più vera famiglia, quella fatta di scrittori e poeti, cui restò sempre fedele.

Ho conosciuto Pietro Citati quando pubblicò un mio libro, L'oceano e il ragazzo, direttamente nella BUR, che allora dirigeva. Non oso dire che diventammo amici, perché era difficile pensarsi suo amico. Dalle origini nobiliari, aveva derivato una postura un po' sprezzante, allontanante, tutto diverso in questo da Italo Calvino, con cui si incontrava insieme a Carlo Fruttero al mare di Castiglione della Pescaia. Aveva una rigorosa, questa sì togliattiana, predilezione per il «lei». Il «tu» era precluso. Eppure ci frequentammo molto. E si crearono sintonie tra noi, così diversi, e certamente una forma non banale di affetto. Fui più volte ospite alla Castellaccia, la sua villa in Maremma con saloni ampi e cupi e un vasto giardino pianeggiante, e a Roma, nella sua casa di via Lutezia ai Parioli, una casa da signore borghese, senza nessuna deroga, nessuna concessione a eccentricità da intellettuale. Poteva essere la casa di un notaio di Torino. E sembrava quasi che lui, con il suo abbigliamento all'antica, con la sua cortesia sospetta di essere semplicemente d'occasione, coltivasse appositamente questa immagine da «notabile di provincia», come me lo definì una volta una mia amica francese un po' snob.

Dietro le apparenze, Citati nascondeva qualcosa di sulfureo e di estremo. Se la Letteratura era l'assoluto, tutto il resto per lui non contava. La vita stessa era inessenziale. Una volta che attraversando Piazza Ungheria osai proporgli un aperitivo, mi rispose con un «no» appena bofonchiato, urtato, scrollando le spalle. Andava a dormire tutte le sere alle 10 dopo aver preso un Tavor. Non riuscii a non pensarci, per contrasto, una notte che, cenando passata l'una in un locale del centro di Roma con Valentino Zeichen, vidi entrare Patroni Griffi, subito circondato da amici ciarlieri e adoranti. Citati lavorava con un ritmo massacrante, mattina e pomeriggio, non si concedeva molto altro. Riceveva a cena. Una volta lui ed io soli mangiammo in cucina, la domestica aveva lasciato qualcosa da mettere sul fuoco e lui tirò fuori dal frigo un barattolino di uova di lompo: «è il sostituto economico del caviale», mi disse con uno sguardo di autoironia ligure: se il padre era siciliano, era ligure la madre, Andreina Amadeo, nobildonna che a Cervo, dove viveva a Palazzo Citati, fu a lungo ricordata per la sua proverbiale eleganza.

Una sera invece lo invitai io in un ristorante vicino a casa sua: «prenderò il piatto più caro», mi avvertì finalmente ridendo. La sua conversazione era per me fonte di soprassalti godibili, tanto era sarcastica nei giudizi. Si salvavano in pochi. E non certo autori molto adulati a Roma, come Enzo Siciliano, o Natalia Ginzburg... Sapeva toccare toni crudeli: per esempio, nella terribile stroncatura che dedico a Il pendolo di Foucault di Umberto Eco. E anche con me, quando mi colpì con fuoco amico e tessendo l'elogio della mia poesia intimò di non leggere i miei articoli e i miei romanzi. Ma era una crudeltà studiata, un vezzo autoprotettivo.

Citati poteva avere momenti di grande, quasi infantile dolcezza: come ricordo con il figlio Stefano, quando era un ragazzino tanto vivace. Come quando scrisse l'elogio delle maestre, o quello del pomodoro, dal gusto ormai perduto.

Sono contento di averlo sentito al telefono di recente, con la voce già incerta e fioca, che si è schiarita quando il discorso è caduto sulla poesia. La terra gli sarà lieve di sicuro, perché ormai lui è lassù, con Borges, Calvino, Fruttero, tra gli scaffali della Grande Biblioteca dell'Universo.

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