«YouTube sta chiudendo il mio canale. E io non so cosa fare». L'allarme lanciato qualche settimana fa da Philip DeFranco, che ha riportato alla ribalta le accuse di censura contro il colosso dello streaming video (comprato da Google ormai un decennio fa), ha rapidamente fatto il giro del web. Costringendo i vertici di YouTube a commentare ufficialmente la vicenda per cercare di ridurre il danno d'immagine. Sì, perché DeFranco, su YouTube, è uno che conta: pioniere del video blogging con oltre 5 milioni di iscritti ai suoi canali, vanta un record di visualizzazioni che sfiora i 2 miliardi e dal 2013 è anche il vicepresidente di Discovery Digital Networks, il «braccio armato» online di Discovery Channel. Eppure, malgrado la sua popolarità, anche DeFranco negli ultimi mesi si è visto «demonetizzare» una quarantina di video nel suo canale principale, senza apparente motivo. Una buona parte dei suoi contenuti più recenti, insomma, è stata esclusa dal programma di inserzioni pubblicitarie di YouTube, che è l'unico metodo per guadagnarsi da vivere quando, di mestiere, si fa lo youtuber a tempo pieno (come DeFranco da ormai una decina d'anni).
Ma facciamo un passo indietro. YouTube, come ogni azienda privata, ha il sacrosanto diritto di pubblicare (o «monetizzare») ciò che meglio crede. E le sue linee guida sulle inserzioni pubblicitarie sono in vigore da tempo, anche se hanno subìto qualche leggera modifica verso la fine dello scorso anno. Si tratta però di regole molto vaghe, che sanzionano i contenuti osceni o violenti, ma anche il «linguaggio inappropriato» e i «temi sensibili o controversi». Un quadro di norme, dunque, che lascia ampio spazio a comportamenti arbitrari da parte di YouTube, ma che per anni non sono mai state applicate con forza e continuità. Ultimamente, invece, la rimozione di video o la demonetizzazione degli stessi sembra essere diventata sempre più frequente. E lo schema pare colpire spesso youtuber «non allineati» alla cultura dominante del politicamente corretto, quasi sempre schierati dalla parte «non sinistra» del dibattito politico, soprattutto statunitense. Stavolta, però, oltre a personaggi che certamente fanno della parodia al clima imperante del politically correct uno dei loro punti di forza (come Luke Cutforth o lo stesso Philip DeFranco), sono stati colpiti anche video blogger assolutamente mainstream (come Melanie Murphy, Rob Dyke e Samantha Ravndahl). Basta una segnalazione da parte di utenti particolarmente sensibili o particolarmente motivati politicamente e il gioco è fatto: il video viene rimosso dal piano di inserzioni pubblicitarie e il produttore dei contenuti deve fare «appello», sperando che qualche anima buona revochi il provvedimento.
Dai piani alti di YouTube, naturalmente, si cerca di minimizzare l'accaduto. La spiegazione ufficiale è che le regole non sono affatto cambiate, ma che sono soltanto state rese più esplicite le modalità con cui vengono notificate le sospensioni. Nel tentativo di rendere più trasparente il processo, insomma, l'azienda californiana avrebbe inavvertitamente scatenato un vespaio di polemiche che adesso sono diventate troppe per essere ignorate. La promessa di YouTube è quella lavorare per potenziare i propri algoritmi di riconoscimento dei video, allo scopo di evitare che l'intervento umano (con tutto il suo carico di pregiudizi, non solo politici) possa creare situazioni sgradevoli di presunta censura.
Il problema come è già accaduto per «scandali» simili che hanno coinvolto altri social media è che questi colossi della Silicon Valley non sembrano riuscire a trovare il tanto sospirato equilibrio tra la fede smisurata nel Dio Algoritmo e la selezione di personale umano in grado di lavorare con professionalità, senza farsi trascinare troppo (l'obiettività totale non esiste per definizione) dalla propria visione della politica e dell'universo. Come spiegare altrimenti il blocco dell'account Twitter del giornalista-provocatore britannico Milo Yiannopoulos, technology editor di Breitbart News e leader indiscusso del movimento filo-Trump su Internet, quando migliaia di account pro-Isis continuano a scorrazzare indisturbati per le praterie del cyberspazio? E perché i giovani virgulti di Facebook appena usciti dagli atenei della Ivy League censuravano (o censurano?) soltanto i post provenienti dalla rive droite senza battere ciglio di fronte agli appelli a favore dell'omicidio di poliziotti diffusi dai simpatizzanti del movimento Black Lives Matter?
I social media, soprattutto da quando hanno iniziato a fare i conti con il mercato pubblicitario, si comportano sempre di più come editori tradizionali, decidendo arbitrariamente ma in modo assolutamente legittimo il perimetro entro il quale i contenuti condivisi dagli utenti sono considerati accettabili o meno. Come gli editori tradizionali, allora, anche le grandi aziende che gestiscono questi social media si devono assumere la piena responsabilità delle proprie azioni e delle proprie scelte politiche.
Se Eric Schmidt, presidente del consiglio d'amministrazione di Alphabet (la holding a cui fanno capo Google e YouTube), sceglie come è avvenuto lo scorso anno con The Groundwork di dare vita a una start-up specializzata in analisi dei dati politici e «sensibilizzazione dell'elettorato», allora qualsiasi dubbio sull'obiettività del suo operato deve essere affrontato molto seriamente. Soprattutto se l'unico cliente di questa start-up si chiama Hillary Clinton.
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