Splendore, verità, grandezza da Chaucer a Whitman Ecco il catalogo dei giganti

Harold Bloom è uno dei pochi giganti della critica letteraria rimasti nel nostro tempo avaro di coraggio intellettuale e di gusto per l’eccellenza. Devo confessarlo, un uomo che dichiara, come lui ha fatto, che i due maggiori contributi dati alla civiltà dagli Stati Uniti d’America sono Walt Whitman e il jazz meriterebbe tutta la mia riconoscenza e ammirazione, anche se non avesse scritto Il canone occidentale. In realtà, lo leggo da quando cominciai a occuparmi di Shelley, tanti anni fa. Bloom non era ancora noto in Italia, dove Shelley e il Romanticismo erano sostanzialmente messi al bando. Trovai subito nel critico americano un respiro nuovo, aperto, attento al simbolico e una capacità dottissima e perentoria di classificare, dare giudizi di valore e disegnare quadri di insieme che nella critica italiana si stava via via perdendo.
Ritrovo Bloom al meglio in questo suo L’arte di leggere la poesia (Rizzoli editore, pagg. 110, euro 10,5) che arriva nelle nostre librerie mentre tutto intorno si ripete il tristissimo luogo comune che la poesia non è più letta da nessuno. Harold Bloom pone intanto tre domande fondamentali: che cosa è la poesia, qual è la sua grandezza, qual è la sua missione. E osa dare le risposte. La poesia «è essenzialmente linguaggio figurato, condensato in modo tale che la sua forma sia espressiva e al contempo evocativa». La sua grandezza dipende dallo «splendore del linguaggio figurato» e dalla «capacità cognitiva». La sua missione è «aiutarci a diventare liberi artefici di noi stessi». Grandioso. Certo, anche controcorrente. Infatti oggi tantissimi detestano l’idea di grandezza e di splendore (variante intensiva della bellezza), ed è opinione comune che non si debba avere una «missione» (variante intensiva della ricerca della verità) da espletare nel mondo. Per Bloom la vera poesia si definisce attraverso la sua «inevitabilità». Un grande stile è sempre libero ma anche inevitabile. E i poeti dal generoso afflato simbolico rimangono i suoi prediletti. Ecco la sua personale tradizione: Chaucer, Shakespeare, Spenser, Milton, Blake, Wordsworth, Shelley, Keats, Tennyson, Browning, Whitman, Dickinson, Yeats, Stevens, Lawrence, Crane. Il coraggio delle sue scelte è ancora più evidente nei consigli di lettura in appendice al saggio. Chiunque può osservare che vengono consigliati più testi di Whitman, Yeats e Lawrence che di Poe, Eliot e Pound. Su Poe, il giudizio sembra persino troppo severo, su Eliot («romantico sotto mentite spoglie») paradossale.
Quella che Bloom chiama «l’arte di leggere poesia» non è dunque un’arte neutrale. È capacità di cogliere la complessa «allusività» di un testo, e di impegnarsi in un «autentico esercizio di accrescimento della coscienza» che ci porti a scegliere il nostro passato e il nostro futuro, la pienezza della nostra vita. Non si legge più poesia quando si abdica, quando si ha paura della complessità del linguaggio e dell’anima. Bloom ferma naturalmente il suo discorso all’ambito anglosassone.
E in Italia? La memoria storica da noi sembra collassata, ci sono poeti e critici che hanno letto soltanto il Novecento.

Perché non riattualizzare la nostra tradizione ricchissima? Italo Calvino ha riusato la macchina del fantastico in Ariosto e individuato una linea che va sino a Leopardi, ma ci restano Tasso, i poeti barocchi, Parini, Alfieri, Foscolo, più attuali che mai. Leggerli insieme a Ungaretti, a Montale, a Luzi, è l’implicito suggerimento di un libro come questo di Bloom. Se vogliamo diventare davvero «liberi artefici di noi stessi».

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