Due scudetti. Una coppa Italia. Nessuno se ne ricordava. E adesso ricompaiono per raccontare Claudio Garella. È uscito dalla vita senza nemmeno avvisare, il cuore, dicono, qualche complicazione e a sessantasette anni è finita così l'esistenza di un portiere grande e grosso, buffo e vero, genuino e poco adatto al pettegolezzo o alle sfilate dei colleghi illustri e milionari. Claudio era un torinese emigrante nel calcio italiano, quando dovevi descrivere e scrivere un portiere un po' sghembo, tipo calciobalilla, annotavi il suo cognome che prese diverse variazioni sul tema: Garellik, Paperella, Compare Orso. Veniva da una città mai euforica per le cose di football nonostante l'ingorda Juventus, lui aveva scoperto il Toro, a diciassette anni imparò l'arte da Castellini e Sattolo il club non gli concesse l'onore della fotografia di squadra all'inizio di stagione, giocò sette minuti, quelli finali contro il Vicenza, prendendo il posto di Giaguaro Castellini che si era ferito in occasione del gol vittoria di Galuppi. Fu la sola presenza con la divisa granata, Pianelli, Bonetto e Giagnoni lo dirottarono al Casale, restò in zona, Claudio, passando al Novara prima del grande viaggio, la capitale, la Lazio, la stagione maledetta per Tommaso Maestrelli e Luciano Re Cecconi, i sogni di Garella sfumano nei cori dei tifosi, un paio di papere sontuose gli costarono il soprannome di Paperella. Prende i primi gol da laziale l'11 settembre del 77 contro il Genoa, in verità un'autorete di Badiani e un rigore di Roberto Pruzzo. Valigia e saluti, Genova e la Samp, tre anni senza memorie eppoi Verona, lo scudetto mai immaginato e poi Napoli, un altro scudetto di fantasia. Per concludere, Udine e Avellino, quasi a finire senza coriandoli e fuochi pirotecnici, perché Claudio mai aveva perso e nemmeno smarrito la sua semplicità: «non è importante se un gatto è nero o è bianco. L'importante è che prenda il topo», spiegava così il mestiere di chi stava in porta, destinato a parare dunque e basta, non importava come, con le mani, con i piedi e qui mi fermo per scansare la canzone sanremese.
Disse Gianni Agnelli: «Garella è il più forte al mondo ma non con le mani», alludendo all'astuzia di Claudio che sapeva come fare, con quel fisico da camionista di Tir che quasi occupava gli abbondanti quattordici metri quadrati della porta. Era uscito dal grande calcio così come era entrato, mai una gioia azzurra, mai un premio vero alla sua bravura ma l'affetto che si dedica a quello dell'ultimo banco, simpatico e un po' bizzarro.
Sfogliando l'almanacco ti accorgi che da allenatore aveva dato una mano al Barracuda, al Pergocrema e al Cit Turin, in linea con la sua vita fatta di cose semplici e fresche, immediate come certe sue uscite. Quest'ultima non suggerisce l'applauso ma il silenzio e la memoria triste di un uomo e di un campione, oggi con le sue mani giunte.
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