Addio al maestro dei 3 mondi col... personalissimo cartellino

Era il tennis, la boxe, il football americano, era lo sport. Da patron di grandi eventi ad artista del giornalismo

Addio al maestro dei 3 mondi col... personalissimo cartellino
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Rino era il tennis ma non era solo quello. Rino era un giornalista vero, di quelli che non hanno bisogno di aspirare al trofeo del Migliore, perché già lo era. E di quelli che non hanno bisogno di nascondersi dietro l'ipocrisia, perché - come diceva lui - «è possibile essere obbiettivi, è impossibile essere neutrali». Il che voleva dire essere diretti, prendere posizione, ma soltanto dopo aver studiato.

I 90 anni spesi in questo mondo da Rino Tommasi sono insomma irripetibili, soprattutto adesso che i giornalisti non hanno più le suole consumate. Anni che hanno dato lezione a generazioni di colleghi e non solo, anche nella sobria sofferenza che sul finale ha spento la sua mente brillante fatta di informazioni e numeri riportati precisamente nei suoi sterminati appunti. Era infatti un uomo dalle tre vite e dei tre mondi, cresciuto nello sport grazie alla passione di famiglia (il padre Virgilio e lo zio Angelo sono stati entrambi atleti olimpici nel salto in lungo, lui è stato un discreto tennista quattro volte campione universitario con due medaglie di bronzo alle Universiadi) e dilagato in una competenza sfociata nella passione per gli sport americani (fu sempre lui a portare il football americano e il baseball a Mediaset, e poi a Tele+). Ma soprattutto era tennis e boxe, alla fine solo tennis e niente boxe, perché dopo aver passato gli Anni '60 a Roma come il primo e più giovane organizzatore di riunioni, scippate a Milano e sempre stracolme di pubblico, finì - dopo un evento con soli 9mila presenti e troppa gente davanti alla Tv a decretare la fine di un'epoca: «Il pugilato è morto». Ci volle qualche anno, ma aveva già capito tutto. Anche se poi a lungo rimase nell'ambiente come artista del microfono.

Gianni Clerici, il Dottor Divago di tante strampalate e bellissime telecronache comuni, lo aveva soprannominato ComputeRino, ed in effetti gli scambi al microfono tra i due hanno segnato un'epoca televisiva, quella vissuta da tante persone che oggi rimpiangono competenza, leggerezza e un po' di sano cinismo, ciò che farebbe gridare allo scandalo. E noi che li abbiamo vissuti anche dietro le quinte, siamo stati dei privilegiati. Se c'era appunto da dare la propria opinione, anche nei suoi scritti sulla Gazzetta dello Sport per la quale ha collaborato per 40 anni (cominciò però a Tuttosport), Rino non si è mai tirato indietro. E se c'era da scherzare con il compagno di doppio al microfono, neppure: celebre il «Bingo, Bango, Bongo» con cui ogni anno cominciavano le cronache degli Australian Open (non era razzismo, ma un modo per celebrare la stagione nell'altro mondo). Così come indimenticabili restano alcuni commenti che oggi farebbero impallidire i paladini del politicamente corretto: «Piaccia o no, raccontiamo il tennis come due amici che lo stanno guardando insieme sul divano». Piaceva.

Potevano permetterselo. Poteva farlo Salvatore Tommasi (era il suo nome completo) per tutto quello che aveva conquistato nella sua carriera, per le sue peripezie giornalistiche riassunte in un libro dal titolo emblematico: Da Kinshasa a Las Vegas via Wimbledon. Forse ho visto troppo sport. Kinshasa era il mitico match Alì-Foreman, il resto non fu solo sport: per esempio celebre è una sua foto mentre intervista Henry Kissinger. E poi ci fu quell'anno in cui approfittando della domenica di mezzo che Wimbledon ancora santificava partì da Londra il sabato per andare a commentare un match di Mike Tyson a Las Vegas per poi essere di nuovo a Church Road, puntuale, il lunedì. Magari gli scappava un sonnellino tra un punto e l'altro, ma ne era valsa la pena. Anche se poi ammise da che parte stava il cuore: «Se dovessi scegliere tra la finale di Wimbledon e un mondiale dei massimi non avrei dubbi: resterei a Londra».

E d'altronde: il circoletto rosso segnato sul suo taccuino per segnare i punti importanti, è entrato nel vocabolario del tennis, soprattutto quando Roger Federer aveva cominciato a ricamare sui campi di tutto il mondo. E poi c'era il suo «personalissimo cartellino», che si trasferì da bordo ring al dizionario dello sport, modo di dire diventato comune e che significa immortalità. Non era infallibile (predisse che Sampras non avrebbe mai vinto sull'erba), però aggiungeva che i pronostici gli sbaglia solo chi li fa. Ed infatti era pronto a scommettere: «Se Edberg non vince Wimbledon entro cinque anni smetto di scrivere». Per fortuna lo ha fatto a lungo.

E il vero rimpianto, in fondo, è non averlo sentito celebrare l'era Sinner del nostro tennis: lui che per anni, per le sue critiche, era considerato il nemico degli italiani, ne sarebbe stato felice. Sarebbe stato obbiettivo e per niente neutrale. Come un Giornalista.

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