Antonio Sibilia, il commendatore che ribaltò l’Avellino

Controverso, ammanicato, tiranneggiante, ma sempre estremamente attento ai risultati: tra gli ultimi esemplari di un calcio che non esiste più

Antonio Sibilia, il commendatore d'Irpinia
Antonio Sibilia, il commendatore d'Irpinia

Quando irrompe nella stanza con quella cadenza di passi corti, ritmati, il respiro perennemente affannato, guadagna la sedia in fretta. Davanti c’è il procuratore di turno, una razza che lui detesta con ogni fibra del suo corpo massiccio, reso ancor più solido dall’assoluta mancanza di collo. Con lo sguardo torvo contempla il suo interlocutore, poi si sfila qualcosa dai pantaloni: è la fondina della sua pistola Magnum, rigorosamente rivolta verso l’ospite. Se è vero che quello che fai definisce chi sei, allora non esiste una sequenza migliore – quasi filmica - di quella che ritrae l’incontro con il malcapitato Dario Canovi, per descrive Antonio Sibilia, il presidentissimo dell’Avellino.

Padre padrone, ammanicato, controverso, suscettibile: servirebbe una caterva di aggettivi per tentare di inquadrare il commendatore d’Irpinia, tanti sono i connotati – tracimanti – premuti dentro alla sua pittoresca figura. Nato nel 1920 a Mercogliano, è figlio di un esportatore di frutta secca che fatica ad appiccicare il pranzo con la cena. Venuto su tra frotte di fratelli – in totale erano sei – sa di non potersi concedere il lusso di storcere il naso. A tredici anni inizia a lavorare per necessità. Proseguirà per tutta la vita, tirato per la giacca da un’ambizione irrefrenabile.

Il primo colpo lo assesta nel dopoguerra, quando inizia a trafficare con le truppe statunitensi: parla fitto e in dialetto, con quella bocca smisuratamente larga, le mani che gesticolano per accorciare le infide barriere della lingua. Poi incassa: due camion e una ruggente scavatrice. Praticamente l’incipit del suo futuro impero edile. Per fare affari è un segugio, ma non si fida di nessuno. Le briglie devono restare nelle sue mani callose. Demiurgo con inclinazioni tiranniche, Sibilia ribalta ogni contesto con piglio autoritario, risultando inviso a molti, eppure dannatamente efficace. Come quando decide di ricostruire larga parte del suo paesino d’origine o quando si industria dopo il terremoto che squassa l’Irpinia.

Nel calcio entra a gamba tesa a cinquant’anni, piazzando subito un paio di concetti cristallini: “Il mio allenatore deve sempre dire di sì”, rivela senza indugio alla stampa accorsa alla sua presentazione. Secondo cardine, non meno sferzante: “Il giocatore è come il camionista. Quando uno sale sul camion io lo vedo subito se sa guidare o no”. Spinto via anche l’ultimo rimasuglio di autocritica, derubricate le opinioni altrui al grado di frivole fesserie, dribbla agilmente chi lo accusa di essere un padrino con argomentazioni ineccepibili: “Non è vero, semmai sono un dittatore, ma un grande dittatore”.

Il campo, intanto, gli fornisce assist succosi. L’Avellino sale di categoria e in B – è il 1974 – si incolla addosso il soprannome di “Inter del sud”. Le intuizioni del presidentissimo sono feconde. Il colpo è sempre in canna. Si accaparra il terzino Codraro, detto “palla di gomma”. Mette le mani su “Frurù” Palazzese, ala fluttuante. Acquista anche Bruno Nobili, venezuelano dal piede morbido. Arrivato nella massima serie riesce a mantenere la categoria e continua a infilare acquisti ammirevoli: su tutti il brasiliano Juary, inizialmente rifiutato per via di una cesta di capelli inestricabili. Esalta e tritura allenatori in drammatica sequenza. La sua ascesa e il suo abisso calcistico, con la squadra che alterna gioie dilaganti a inciampi memorabili, viaggiano in parallelo alle sue intricate vicende giudiziarie.

Di certo attira l’attenzione della Camorra, che prova a crivellarlo con quarantuno proiettili al casello di Avellino, fallendo miseramente. Finito nel mirino del pool antimafia, riceve un’intimazione netta: deve soggiornare forzatamente a Trento per almeno tre anni. Lui strabuzza gli occhi, poi fa spallucce e commenta così davanti alla stampa: “Vado perché sono uomo d’ordine, ma ho la sciatica e avrei preferito un posto al caldo”. Non rimarrà più di tre giorni.

Nel 1980 è comodamente appollaiato su una poltrona in pelle dell’Hotel Gallia, la casa del calciomercato. Lo informano che ha ricevuto una chiamata e che il telefono lo aspetta al bar. È una trappola: trova due agenti in borghese che lo arrestano. L’accusa è un macigno. Credono che sia lui il mandante dell’omicidio del procuratore avellinese Gagliardi. Nel frattempo, si viene a sapere che, tramite il calciatore Juary ha fatto consegnare una medaglia d’oro al capoclan Raffaele Cutolo, per ringraziarlo di aver sventato un altro attentato. Fa la spola tra il carcere e gli arresti domiciliari, ma dopo cinque anni lo assolvono per insufficienza di prove.

Chiede un risarcimento per ingiusta detenzione: pretende cento milioni di lire, ma gliene riconoscono poco più di tre. Quando torna nel suo habitat, all’Hotel Fort Crest dove infuria il mercato, viene accolto con applausi commossi. Scende in C e poi risale, sempre trangugiando allenatori. Si ritiene massimo esperto di acquisti e tattiche: chi non lo asseconda è accompagnato alla via più breve per la porta.

Il suo successo nel calcio lo cicatrizza in otto parole: “Pago in contanti in un mondo di cambiali”.

In dieci anni, anche se con metodi discutibili, piazza sulla mappa Avellino, fino ad allora trascurabile provincia italiana. Smisurato, eppure autentico fino al midollo. Il riflesso di un modo di leggere il calcio e la vita dissolto ormai da un pezzo.

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