Adesso faccio il broker, mi occupo di finanza». Giampiero Marini, vecchio ragazzo classe 1951, lo dice con la voce soddisfatta di chi ha raggiunto un obbiettivo. Lui, certo, campione del mondo nel calcio 40 anni fa. Una vita da mediano, faceva il ritornello. Per tutti era Malik, una sorta di pirata, il soprannome che sente più suo. Ma il sogno era altro. Non a caso compariva agli allenamenti con borsa, scarpe, magliette e Il Sole 24 ore fra le mani. Racconta: «Dopo il diploma da geometra, volevo iscrivermi a economia e commercio ma erano chiuse le liste. Ho dirottato su scienze biologiche: dopo due anni ho lasciato perdere. Ed invece, quando giocavo, ho seguito corsi specifici di economia. Ed ora eccomi qui». Con il calcio ha chiuso da una decina di anni, dopo l'esperienza come ct della nazionale under di serie B. L'Inter nel cuore («una seconda famiglia, ci sono stato 20 anni»), un mondiale in bacheca: due partite da titolare, tre da subentrante.
«E quella vittoria ha ribaltato il mio modo di vedere la vita. Sono maturato, ho dato più valore alla vita. Un'impresa straordinaria, ricordi indelebili».
Marini era uno dei meno giovani...
«Era un gruppo affiatato, e c'era rispetto per i più anziani: Zoff, il Barone (Causio ndr.). Poi io e Bordon. Ma solo nei momenti particolari veniva fuori la datazione della nascita. Pensi che ero in camera con lo Zio, il più giovane».
Lo Zio, ovvero Bergomi...
«Si, gli diedi il soprannome il giorno che entrò nello spogliatoio portato da Bersellini. Aveva 17 anni e due baffoni enormi. Allora esclamai spontaneo: Fischia! Sembri mio zio. Al mondiale cercavo di dargli carica, ma lui era già maturo rispetto ai suoi 18 anni. Aveva fatto scuola con noi all'Inter. Mai esaltato: basta guardarlo negli occhi. Ancora oggi. Quando gli toccò l'esordio contro il Brasile, provai a dargli forza e gli dissi: Zio guarda che tu sei come loro, sei bravo come loro. Lui si girò e cominciò a sorridere».
Il Brasile è stato il centro dell'universo della vostra storia.
«Nello spogliatoio ci siamo detti: vinciamo! Del resto non potevamo far altro. Contro l'Argentina vincemmo senza sprecare troppe energie. Il Brasile era il più forte di tutti: peccò di superficialità. Ma anche loro sapevano che eravamo forti. Zico, recentemente, ha detto che se avessimo giocato un altro mondiale avremmo vinto ancora noi. Dopo il Brasile ci fu la Polonia: andammo sereni».
Si scatenò Paolo Rossi
«Avevamo già capito. Prima del Brasile, il ct programmò due allenamenti e una partitella 11 contro 11: Paolino cominciò a fare i numeri. Si vedeva che si era liberato fisicamente e mentalmente. Era arrivato imballato: ad ogni fine allenamento lo vedevi affaticato. Ma tutta la squadra era ancora imballata a Vigo».
E diede ragione a Bearzot dopo tante polemiche
«Bearzot è stato un vero condottiero. Siamo stati una roccaforte grazie al ct. Eppure a Coverciano, o chissà dove, in quel momento storico c'era chi lo voleva far fuori. Lo attaccava soprattutto una parte della stampa romana. Dicevano: Si vince, però Si vince, però Se continui così la gente ci può credere».
Il rapporto di Marini con il ct?
«Mi chiamò in nazionale tempo prima, quando l'Inter andava forte. Pensai: mi farà giocare una-due partite. Ne vincemmo quattro e un giorno sul pullman mi siede vicino e mi chiede: come ti trovi? Dico: bene. E lui: ho la convinzione che rimarrai molto tempo con noi. Sono rimasto 4 anni».
Al mondiale suonò la sua chitarra?
«No, quella volta non l'ho portata. Invece al Mundialito Bearzot mi chiese di suonare per i compagni».
In Spagna si infortunò dopo le prime due partite
«L'umido, la pioggia di Vigo non furono salutari. Si riacutizzò uno strappo al pube. Ero demoralizzato, non riuscivo ad alzarmi dal letto ma con cure ed esercizi tornai in panchina».
Non giocò la finale, deluso?
«Non più di tanto, ero soddisfatto delle mie partite. Ma ci fu un episodio che spiega Bearzot. A pochi minuti dal termine disse: Barone scaldati. Causio aveva giocato poco, ma era un modo per gratificarlo. Chapeau! E richiamò Altobelli, che era subentrato ed aveva segnato. Eppure Spillo uscì come niente fosse. Questo era il nostro spirito».
La coppa era di marca italiana, disegnata da Silvio Gazzaniga. Il Giornale ha lanciato una petizione per intestargli una via, una tribuna, qualcosa. D'accordo?
«Certamente. Di recente ho rivisto la coppa: è bellissima».
E dopo 40 anni?
«Ho letto un libro sul mondiale: mi sono venute le lacrime. Non siamo più nel calcio ma la gente ti ferma ancora per un autografo, una foto. Questa storia non passerà mai».
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