Trilla il telefono. Il delegato della federazione sgrana gli occhi, trasecolato per quel che ha appena ascoltato. Quando riaggancia, si fa un lungo corridoio a corsa per dirlo a tutti: “Siamo stati ripescati!”. A Copenhagen accolgono la notizia facendo spallucce. Meglio così, d’accordo, ma tanto dove vogliamo andare?
Dribbliamo subito la narrazione favolistica, perché l’anticamera del prodigio ha le pareti schizzate di sangue e trasuda orrore dalla moquette. Nell’estate del 1992 la Danimarca ha cannato l’ingresso agli Europei di calcio per un punto soltanto. Abbastanza per finire dietro alla Jugoslavia. Solo che quel Paese lì è sul punto di dissolversi. Il conflitto è furente e costringe pure i caschi blu dell’Onu a ripararsi lontano dalle zone più calde. Croazia, Bosnia e Slovenia si avviano sulla strada dell’indipendenza, anche se è lastricata di ordigni. Quel che resta di questo luogo dilaniato, diventa chiaro a tutti, non condivide più i valori di un’Europa pacifica. L’esclusione dalla competizione è un effetto collaterale risibile in confronto al tetro pensiero dei massacri di guerra. Comunque avviene. Danesi richiamati, maglie da premere in valigia in fretta e furia.
Per gli Europei, di sicuro, non stacca il biglietto l’Italia di Vicini. Dopo l’abbuffata di notti magiche in casa è il momento di colare a picco. Il futuro che sta per arrivare si chiama Arrigo Sacchi, ma questa è decisamente un’altra storia. Torniamo piuttosto in Danimarca dove, come pigolava Marcellus nell’Amleto, c’è decisamente del marcio sì, ma tra la gente e mister Møller Nielsen. Quest’ultimo - è il sentore dilagante - non ha fallito solo tecnicamente. Il suo peccato principale è di natura morale. Armato di inusitata protervia ha infatti deciso di distillare il precipitato calcistico dei fratelli Laudrup, Miki e Brian. Nell’ultima partita, addirittura, li ha sostituiti entrambi. Per Michael è un affronto troppo grande per essere digerito: “Adesso basta, d’ora in avanti la mia nazionale sarà soltanto il Barcellona”, annuncia. Agli europei di Svezia va solo il fratellino: di certo il rimorso è una ferita riluttante a chiudersi.
Ok, va bene tutto. Schmeichel tra i pali sta già annunciando d’essere un predestinato. Vilfort, mediano d’acciaio, ha un motivo in più per combattere: fa la spola tra il campo e l’ospedale dove è ricoverata sua figlia, affetta da una grave forma di leucemia. Davanti c’è Povlsen per fare a sportellate, mentre Brian svolazza intorno. La struttura è più che decente, ma le vere favorite sono altre. L’Olanda di Dennis Bergkamp, ad esempio, è una spremuta di talento. Promette bene anche la Francia di Platini, che arriva da 19 risultati utili consecutivi. Lo spettro però è sempre la Germania, fresca detentrice del mondiale. Anche perché il muro è caduto e, per la prima volta dal dopoguerra, può presentarsi compatta, armata della classe di gente come Sammer, Hassler e Klinsmann.
Arriva la stretta finale. La Danimarca ferma l’Inghilterra sullo 0-0, ma cede di misura ai padroni di casa della Svezia. Assomiglia già a un deprimente epilogo, ma il sussulto arriva, inatteso, contro la Francia: 2-1 e pass per le semifinali da seconda. Però a Göteborg, il 22 giugno, sembra impossibile spuntarla. Di fronte c’è l’Olanda di Gullit, Van Basten e un catalogo inesauribile di altri astri luminescenti. Invece la doppietta di Larsen (all'epoca al Pisa) trascina i danesi ai supplementari e, quindi, ad un’insperata vittoria ai rigori. Assurdo: finale.
Ora però, giurano gli esperti, la botta di buona sorte è stata tutta consumata. Contro la Germania di Berti Vogts tocca sicuramente deporre le armi. Soltanto che, riluttante ai pronostici, la nazionale di Møller Nielsen si dimostra un convitato di pietra ingestibile. Jensen stappa la partita al 18’. Poi è un flusso di eventi inarrestabili. Il mister tedesco spenge la ragione della squadra, togliendo Sammer a metà tempo. Le idee si fanno appannate. La consueta percezione d’invulnerabilità dei tedeschi viene ancora una volta punita. Riedle e compagni si riversano tutti in avanti, prendendosi più di un rischio. Fino a quando Vilfort, proprio il padre dal cuore preoccupato, la chiude definitivamente.
Da ripescati a vincitori, con
buona pace per chi disserta di logica. Nell’estate del ’92 anche gli scettici si ravvedono. Dopo il fischio finale erompono nelle strade di Copenhagen sussurrando parole di burro: c’è del calcio in Danimarca.
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