"Era un po’ fredda": Johanna Nordblad, 103 metri sotto il ghiaccio

Nel 2021 l’atleta finlandese si rese protagonista di un’impresa surreale: il record di apnea lineare in condizioni estreme

Johanna Nordblad prima dell'impresa
Johanna Nordblad prima dell'impresa

Forse a volte il destino è inciso nel cognome. Nordblad suggerisce assonanze vischiose, tra sangue e ghiaccio. Lei, che di nome fa Johanna, probabilmente non ci ha mai riflettuto su. Troppo impegnata a coltivare i suoi molteplici interessi. Gli sport estremi e il design: collisione divertente. Se la spassava un mucchio anche diversi anni fa, il sedere incollato sul fondo della piscina, il maestro che tentava invano di richiamarla verso l’alto. Mentre gli altri bambini annaspavano, lei si sollazzava. A soli 6 anni si trovava circondata per la prima volta da quel totalizzante tessuto blu e lo trovava confortante. I pensieri diventavano ovattati come i suoni. Gli altri non potevano raggiungerla. Era una sorta di buen retiro finnico. Quando usciva dilatava quelle pupille di un azzurro granulare, liberava folte ciocche di capelli biondi dalla cuffia e sorrideva forte, incurante dei rimproveri.

D'un tratto è già Natale. Che poi, da quelle parti, devono vivere l’atmosfera tutto l’anno. Mamma è papà la incalzano sul regalo? Lei fa spallucce: “Ovvio, a Santa Claus chiederò un paio di pinne”. Arrivano puntualmente: le stringe con occhi acquosi, poi se le porta anche a letto. I sogni scorrono più facilmente. Più cresce, più comincia a scendere. Prima se ne resta là sotto con i pesi e le bombole d’ossigeno, poi se ne priva gradualmente. L’acqua fa parte del suo corredo genetico. Non può infliggerle alcun dolore.

Il male procurato arriva altrove. Johanna è un’anima incandescente. Deve esplorare i suoi angoli più incerti per sentire che i suoi polmoni pompano senso. Al nuoto e all’apnea somma il kayak, la corsa in motocicletta e la discesa libera in bici. Proprio quest’ultimo sport la tradisce: le gomme sfrigolano sull’asfalto, il telaio svirgola e lei si sbriciola una gamba contro una roccia.

La riabilitazione è drammatica. I chirurghi salvano l’arto dalla necrosi, ma per tornare a camminare serviranno mesi. Con il dolore va anche peggio. È una lancinante pioggia di aghi che crivella i tessuti. Qualcuno, scorgendola afflitta, le consiglia di ricorrere alla terapia del ghiaccio. Touché. Nordblad comincia ad intingere la gamba nell’acqua gelata. All’inizio non riesce a tenerla sotto per più di un minuto, ma la sensazione di sollievo è impagabile. Il fuoco che la erode interiormente si anestetizza, diluendosi in tepore. Johanna prende coraggio. Aggiusta il respiro. Focalizza l’obiettivo. E, pezzo dopo pezzo, immerge tutto il corpo.

L’idea conseguente giunge quasi naturale: considerato il feeling con il ghiaccio, perché non trascinare l’apnea ad un altro livello? "Proviamola sotto la banchisa", sussurra un giorno alla onnipresente sorella Elina, la persona che vive con lei un legame simbiotico, fotografandola in ogni sua impresa. Stavolta però la contempla stranita: "Johanna, è una follia". È un termine che è stato espunto dal suo personale vocabolario. Anzi: più le imprese si fanno impervie, più lei sente affluire quel sangue di ghiaccio.

Inizia ad infilarsi sotto le enormi lastre perlacee che tappezzano il lago Ollori, proprio davanti casa. Là sotto sfuma la fanfara del mondo. Succedeva già prima con l’apnea semplice. Succede di più adesso, con tutto quel ghiaccio sopra la testa e l’acqua gelida che le lavora ossa e pensieri. Le sue performance migliorano senza sosta. Elina intanto scatta e documenta. La cosa non sfugge allo sguardo acuto di Netflix, sempre in cerca di nuove pulsazioni visive. Le propongono un documentario che fonda la sua credibilità su una sfida: deve battere il record del mondiale di apnea lineare sotto il ghiaccio, inciso a 102 metri. Lei non si trova in condizioni fisiche ideali: un problema ai polmoni la infastidisce da tempo. Accetta lo stesso. Vuole riscrivere i suoi limiti.

Inizia così una lunga stagione di intenso allenamento. Passa più tempo sotto quella distesa sconfinata che a casa. Allunga il suo respiro e si libera dei pesi che la favoriscono: a corpo libero sibila come un siluro che fende una coltre dai riflessi d’alabastro. Poi viene il giorno. Il 18 marzo 2021 la troupe scorge la sua sagoma in lontananza. Nella mano destra stringe una sega. Dietro di lei l’immancabile sorella: lei invece porta in dote una reflex.

Inizia ad incidere il ghiaccio. Indossa soltanto un costume intero, il che rende la sua prova ancora più ardua. Infila quelle ciocche bionde dentro alla cuffia e si siede sul bordo della zolla che ha perforato, le gambe già ciondolanti dentro il fluido assiderante. Poi regola la respirazione e fa un cenno alla sorella: “Sono pronta, vado”. Sotto il tempo scorre con un altro ritmo. Il suo profilo si intravede incerto, ma la cadenza è sicura. Cinquanta metri divorati. Settanta. Ottanta. L’ultima spanna è quella che potrebbe metterla in crisi. Se non ce la fa, sarà costretta a riemergere. Lei però non si arrende. Centodue metri. Centotre. Quasi tre minuti senza respiro.

Quando riaffiora, le labbra

violacee e il corpo intirizzito, il suo primo commento è rivolto alla sorella: “Era un po’ fredda”, sussurra. Poi chiude gli occhi e riacquista l’ossigeno. Non servono pinne per rincorrere il destino che hai dentro.

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