Caro Arrigo Sacchi, da dove cominciamo questa chiacchierata sul calcio italiano e sul fallimento di Sarri alla Juve? È anche il fallimento della sua idea di calcio?
«Lascerei la risposta al direttore de El Pais. Quando ero a Madrid, parlando con lui dell'Italia mi disse: è un paese antico a cui piace l'antichità».
Così va il calcio italiano dunque?
«Certo. Possibile che non ci sia nessuno che si chieda: com'è possibile che l'Atalanta riesca a fare 20/30 gol più degli altri? Tra l'altro segnalo che si tratta di una impresa resa possibile da calciatori come Ilicic e Gomez, scartati dagli altri club più altri illustri sconosciuti fino a prima di sbarcare a Bergamo».
Che spiegazione si è dato?
«Che il calcio italiano non ha le poche idee ma chiare funzionali al successo che conta, che lascia la scia. Partiamo dalle premesse: bisogna capire che è uno sport di squadra, che vincere con merito lascia un segno e che bisogna inseguire la bellezza. Se la Juve, in un paese dove l'imitazione è dietro l'angolo, in nove anni di vittorie, non è riuscita a trascinare il movimento e a creare le premesse per qualche successo internazionale, dobbiamo porci il problema».
Vede poco bianco e tutto nero?
«Rifuggo dal catastrofismo perché ad esempio Atalanta e Sassuolo sono eccezioni virtuose. Perché il Napoli di Gattuso, se avesse tenuto il campo come nei primi 10 minuti contro il Barcellona, avrebbe messo in difficoltà anche Messi. E glielo dirò a Rino. Per far questo ci sarà bisogno di un gran lavoro mentale e poi tecnico e tattico. Racconto sul punto un aneddoto».
Quale?
«Ai primi tempi del Milan, parlavo con Tassotti e gli spiegavo come bisognasse integrare la fatica degli allenamenti col riposo e con l'alimentazione giusta. Lui mi rispose: la sera sono così stanco che dopo il primo piatto mi addormento! Solo così siamo riusciti a meravigliare Mark Hughes. Durante una conferenza in Inghilterra mi disse: gli italiani, se avessero avuto un campo lungo due chilometri, si sarebbero difesi negli ultimi venti metri; lei come è riuscito a farli scappare in avanti? La mia risposta fu: senza rischio non c'è avventura. Ho rischiato sempre al Fusignano, al Milan e in Nazionale».
Continua a non credere nel primato del fuoriclasse, par di capire
«Maradona mi chiamò e mi chiese di andare ad allenare il Napoli. Mister, con me parte dall'1 a 0, aggiunse. Gli risposi: e se sei infortunato? Non accettai. Il gioco non scade mai di forma né subisce infortuni. Lo scudetto del Milan arrivò con Van Basten che giocò le ultime 3 partite. E nella seconda coppa dei Campioni alzata a Vienna, Gullit giocò solo la finale, e male per giunta. Ecco perché io credo che il calcio debba avere tre pilastri su cui costruire il resto: 1) spirito di squadra, 2) fortissime motivazioni; 3) un gioco che ti guidi. Con questi valori i giocatori diventano importanti».
Andiamo al sodo: perché Sarri, che era un suo pupillo, ha fallito?
«Ho fatto il tifo per Sarri e per la Juve, lo sanno tutti. Ma se Riccardo Muti dovesse lavorare con musicisti di jazz, rock o addirittura di liscio, cosa potrebbe realizzare? Sarri è arrivato alla Juve nel momento sbagliato. Non doveva accettare: io glielo dissi subito. C'è un motto nel calcio che fa più o meno così: squadra che vince non si cambia. Errore: squadra che vince si cambia proprio per alimentare motivazioni fortissime».
Anche Antonio Conte ha vissuto giorni complicati all'Inter
«Conto sempre su Antonio perché lo conosco bene e so che ama disperatamente il suo lavoro, il lavoro fatto bene. Dovrà giocare a 3 in difesa, fare pressing, far muovere tutti insieme la squadra e vedrete che riuscirà nel suo intento».
A proposito di Pirlo successore di Sarri: che giudizio ha?
«Avevo intuito l'epilogo il giorno della presentazione con l'under 23, ma pensavo a una successione nei prossimi 1-2 anni. Ho piacere per lui. Sa benissimo di assumersi un rischio ma chi rischia lavora per il futuro. È partito con le idee giuste: ha capito che molti hanno dato tutto. Vincere usura la testa prima dei muscoli. La Juve ha sempre scelto allenatori bravissimi. Prendiamo gli ultimi due, Allegri e Sarri, due tecnici con idee calcistiche diverse e che hanno avuto a disposizione gli stessi giocatori: non andavano bene. Anch'io, ai tempi del Milan, presi Van Basten e Colombo: uno era funzionale all'altro e viceversa. Marocchi, incontrato al mare, un giorno mi disse: con quel Milan avete dato coraggio a tutti. Se vinci con merito rimani non solo negli archivi, ma anche nella storia. Una volta Gullit mi disse: nelle partite in cui facciamo fatica a fare gol perché non tiriamo palloni nelle mischie, siamo alti e forti di testa? Risposi: perché se dovesse andar bene una volta, vorreste rifarlo sempre».
Possibile che solo Atalanta e Sassuolo raccolgano il suo consenso?
«No, c'è dell'altro, naturalmente. Per esempio il Milan della parte finale mi è piaciuto molto. Punto su Conte e sull'Atalanta, sul lavoro di Gasperini grazie al quale Toloi e Palomino sono diventati protagonisti. L'Atalanta, diciamolo, è già andata oltre la nostra immaginazione».
Ne viene fuori, caro Arrigo, un quadro deprimente del calcio italiano
«I risultati sono quelli che sono. Vedrete che anche quest'anno le semifinaliste di Champions avranno una filosofia di gioco simile alle migliori quattro della passata stagione. E al posto della rivelazione Ajax c'è il Lipsia. Per uscire da questo periodo negativo dobbiamo puntare sui valori. Volete un esempio? Il calcio inglese. Ecco: se c'è un traguardo per la mia prossima vita, lo anticipo adesso, vorrei allenare in Inghilterra».
Inglesi a parte, come si può tornare a splendere come negli
anni Novanta?«Ho molta fiducia nel presidente federale Gabriele Gravina. Spero che riesca a realizzare quelle riforme di cui ha bisogno il calcio. Sono le stesse di cui ha una disperata necessità anche il paese».
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