"I miei primi 50 anni da innamorato del volley. Ora sogno la Nazionale"

L'ex campione adesso coach a Modena si confida. "Mi commuovo con l'Inno...". E si candida a ct

"I miei primi 50 anni da innamorato del volley. Ora sogno la Nazionale"

Un curriculum per cui servirebbe un'edizione straordinaria, una bacheca infinita piena di scudetti, coppe, ori e trofei, un passato e un presente al centro della pallavolo italiana, un nome e un cognome che sono storia e leggenda di questo sport. Andrea Giani soffia sulle 50 candeline, guardando al passato ma soprattutto al futuro del volley che si prepara già alla difficile sfida della ripartenza nella prossima stagione, dopo che questa è finita nel buco nero del coronavirus. Cinque scudetti, distribuiti tra Parma e Modena, cinque coppe Italia, due coppe dei Campioni con Modena, un'altra decina di coppe internazionali, e poi tre Mondiali e quattro Europei con la Nazionale degli anni d'oro oltre a due medaglie d'argento e una di bronzo alle Olimpiadi che in mezzo a tanta gloria suonano più come rimpianti che come trionfi. E adesso la festa per i 50 anni da celebrare rigorosamente in casa, in un'atmosfera che non avrebbe mai immaginato...

«Una situazione stranissima, che ti fa scoprire cose mai fatte. Per esempio le serie tv, la televisione in genere, perché quando sei impegnato con la pallavolo dalla mattina alla sera non hai tempo per guardarla».

La pallavolo ha annullato tutti i campionati con un po' di polemiche tra lega e federazione. Lei è d'accordo con questa decisione?

«Lo stop era obbligato, ma sulla ripartenza si poteva ragionare. Certo, non sarebbe stato logico giocare i playoff senza finire la regular season. Forse, se si potesse ripartire a fine maggio, ci sarebbe anche stato il tempo per fare tutto, ma i problemi organizzativi non sarebbero stati pochi. A questo punto giusto concentrarci sulla prossima stagione».

E il volley italiano rischia di ripartire più povero, anche di giocatori.

«Sicuramente non ripartiremo con i budget attuali. Il calcio può far conto sui diritti tv, noi dobbiamo pensare ad altre risorse. E nella prossima stagione non sappiamo se e quanto potremo far conto sul pubblico: per una società come Modena il botteghino rappresenta gran parte degli introiti, senza i tifosi sarà difficile onorare i contratti. Bisognerà trovare accordi con i giocatori...»

Con il rischio che qualcuno vada all'estero e che nessuno arrivi in Italia.

«Sì, possibile. Però non è nemmeno detto. Oggi chi può permettersi di pagare i giocatori come li pagavamo noi fino alla chiusura? Germania e Francia sono paesi ricchi ma non hanno campionati forti. La Russia ha già chiuso tutti i roster e al massimo avrà un paio di posti liberi per gli stranieri. E la Cina farà il campionato? Insomma non vedo molte possibilità per andarsene via».

Facciamo un bel passo indietro: come ha fatto un napoletano ad appassionarsi alla pallavolo?

«Ma io sono napoletano solo di nascita, perché è la città di mia mamma. In realtà noi abitavamo a Sabaudia e sono cresciuto lì, dove mio papà faceva canottaggio (capovoga dell'otto azzurro a Tokyo '64, ndr) e dove anch'io feci questo sport da ragazzino. Ma a Sabaudia c'era anche una squadra di volley di A2 e io scoprii questo sport».

Da Sabaudia a Parma per il salto di qualità.

«Si erano stupiti che un ragazzino di 14 anni giocasse già nel campionato di A2. Mi chiamarono per un provino e andai a Parma, la grande Maxicono. Partii dalla squadra di serie C allenata da Montali, ma l'anno dopo ero già in serie A e in Champions. Parma è stata la squadra dei miei primi grandi successi, quella che mi ha portato in Nazionale. Undici anni meravigliosi».

E quando Parma chiude passa ai rivali storici di Modena.

«Era la squadra in cui mi sentivo più rappresentato, quella che avevo sempre ammirato, per i derby che avevamo giocato, per come la città viveva la sua squadra. E così è diventata la mia squadra, quella in cui lavoro tuttora».

Parma, Modena, ma soprattutto Nazionale. Lei è stato uno dei cardini della grande Italia di Velasco.

«Un ciclo straordinario. Abbiamo vinto tutto, ci è sfuggito incredibilmente solo l'oro olimpico. L'unica cosa che abbiamo sempre inseguito e mai raccolto».

Delle due finali perse, quale rimpiange di più?

«Sicuramente quella di Atlanta, nel '96, in cui avevamo più chance, perché eravamo forti tanto quanto l'Olanda. Ad Atene, otto anni dopo, il Brasile effettivamente aveva qualcosa più di noi. Oggi se rivedo a freddo le statistiche me ne rendo conto: nel 2002 avevamo già perso con loro nei quarti del Mondiale e da allora in poi li avevamo battuti poche volte. Qualcosa vorrà dire».

La partita indimenticabile della sua carriera?

«Domanda difficile. Dovrei dire tutte le finali perché per arrivare a giocarle passi attraverso sacrifici e sogni. Per importanza dovrei dire il primo scudetto, il primo Mondiale e la prima finale olimpica, insomma tutte le prime volte, quelle che segnano il percorso di un atleta».

Come tecnico, invece, i suoi capolavori per ora sono gli incredibili argenti europei da ct della Slovenia prima e della Germania poi.

«Sì, in contesti diversi, ma frutto della stessa programmazione. In tornei brevi, di sei sette partite, se arrivi in grandi condizioni puoi fare risultato anche se le differenze tecniche in campo sono grandine».

Slovenia, Germania, resta solo la panchina dell'Italia...

«Beh, allenare la squadra del tuo Paese è l'obbiettivo di ogni tecnico, soprattutto per chi, come me, ha vinto tanto con quella maglia. Io poi mi sono trovato nella situazione stranissima di affrontare l'Italia, battendola sia con la Germania, sia soprattutto con la Slovenia nella semifinale del 2015. E quando senti che il tuo inno suona per la squadra che hai di fronte ti trovi in una situazione di conflitto esagerata, non nego che qualche lacrima ti scappa. È un'emozione stranissima. Poi per fortuna si gioca e passa tutto».

Che giocatore è stato Andrea Giani?

«Un giocatore molto utile per gli allenatori, perché mi cambiavano ruolo spesso per poter avere sempre squadre vincenti. E io mi sono sempre adattato, con un po' di fortuna e tanto sacrificio».

L'allenatore a cui deve di più?

«Ho la fortuna di avere avuto dei grandi: Giulio Velasco, ma anche Bebeto e Montali all'inizio della mia carriera».

Da ragazzo aveva un idolo?

«Sì, Andrea Lucchetta».

La più bella soddisfazione che le resta dopo quasi 40 anni di pallavolo?

«Il fatto di essere comunque e sempre rimasto me stesso. Con il mio carattere e il mio modo di essere. Con il mio modo di vivere e la possibilità di divertirmi».

La pallavolo la diverte ancora?

«Un casino».

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