"Innamorato della Rossa e... non fui cacciato. A Vasseur date tempo"

L'ex boss Ferrari ed ex Ad Juve: "Non avrebbe avuto senso mandarmi via per spostarmi in bianconero"

"Innamorato della Rossa e... non fui cacciato. A Vasseur date tempo"

Non sono storie. Maurizio Arrivabene soffre davvero quando vede la Rossa andare al rallentatore. È un Arrivabene solo ferrarista. Quello juventino avrebbe tanto da dire ma le vicende processuali ancora in corso suggeriscono di rimandare ogni risposta. Si legge nei suoi occhi che ancora ci tiene da matti alla Ferrari, a quella che per anni, ancora prima che ne diventasse team principal (dal novembre 2014 al gennaio 2019), era la sua famiglia come uomo Philip Morris, lo sponsor principale. Certo, una cosa era arrivare a Maranello con la valigia piena di dollari, un'altra è essere il grande capo un gradino sotto un presidente presente com'era Sergio Marchionne. «Umanamente mi sarebbe piaciuto realizzare un sogno rimasto incompiuto dopo che da team principal, lottando contro la Mercedes di Hamilton, ci eravamo andati vicini», racconta nel fuori onda di Race Anatomy, la trasmissione di Sky che lo ha riportato in pista a parlare di Ferrari dopo gli anni juventini finiti decisamente peggio di quelli trascorsi a Maranello. Su quello che capitò in Ferrari dopo la morte di Marchionne si è detto e scritto un po' di tutto. Arrivabene vuole sottolineare una sola cosa: «Me ne sono andato io, nessuno mi ha cacciato. Anche perché se John Elkann mi avesse mandato via dalla Ferrari, difficilmente poi mi avrebbe affidato la Juve».

Una versione che non fa una piega. «Io sarei rimasto per un anno ancora, ma quando mi proposero un contratto triennale non me la sono sentita». C'era già la Juve nell'aria e il peso della Ferrari stava diventando insostenibile. Arrivabene avrebbe qualcosa da dire a chi sosteneva che lo stesso Marchionne aveva scelto Binotto al suo posto, ma non aggiunge altro. Non gli piace parlare male di chi è venuto prima o dopo di lui. Con Binotto non andava palesemente più d'accordo, ma ora che neppure Mattia è più in Ferrari, non vuole dire nulla. Al massimo dice la sua su chi comanda ora. Ma solo per supportare, non per criticare: «Vasseur lo conosco da tempo, ha fatto grandi cose con l'Alfa e ha scoperto un campione come Leclerc che poi io portai in Ferrari... Quando ti trovi a Maranello non è semplice, l'organizzazione è diversa con tante persone da gestire. Il marchio è bello e pesante, c'è tanta pressione. Serve tempo per ambientarsi e capire i meccanismi, oltre che capire cosa rappresenta la Ferrari per l'Italia. Non è facile trovare i meccanismi. Ha fatto bene a non entrare con il piede a martello, prima bisogna conoscere le persone». Non lo fece neppure lui, anche se quei muri avrebbero molto da raccontare su certe mattinate.

Una delle sue giornate peggiori il mattino dopo il Gran premio d'Italia del 2018 con Raikkonen e Vettel in prima fila. Alla vigilia di quel weekend fu comunicato a Kimi che al suo posto sarebbe arrivato Leclerc. Tutti interpretarono la pole di Kimi e poi la sua sciagurata partenza come una vendetta. Nulla di più sbagliato a sentire Arrivabene: «Fu Kimi a chiedermi di dirgli subito la decisione. Io avrei voluto aspettare dopo Monza. Ma lui fu irremovibile e mi ringraziò per la schiettezza. Siamo rimasti ottimi amici. E guardate che un accordo c'era. Solo che neppure un pazzo può sognarsi di decidere a tavolino una partenza. L'accordo c'era e dopo tre quattro giri in testa sarebbe andato Seb. Ma non potevamo rischiare al via con un cagnaccio come Hamilton alle loro spalle». Finì malissimo, con la vittoria di Lewis davanti a Kimi e Vettel che lottava per il titolo, giù dal podio. Arrivabene resse alle critiche esterne. Ma qualcuno all'interno cominciò a giocargli contro.

Il ricordo più bello è la vittoria di Vettel a Silverstone, la volta del famoso «a casa loro». Arrivabene sfrutta il ricordo per spiegare il ruolo del team principal: «È quello di motivare la squadra a dare sempre il meglio. Per esempio, quando passavo nel box per raggiungere il muretto non mi sono mai fatto vedere preoccupato. In quei venti metri ti guardano tutti e devi trasmettere sicurezza». Ma torniamo a Silverstone: «Quel 4 luglio, proprio a Londra, era nato mio nipote. L'ho visto prima di andare in pista e mi sono detto: la prima immagine che vede non può essere quella di una sconfitta. L'ho raccontato alla squadra e ho visto una carica diversa nei loro occhi, i ragazzi erano contenti, era scattata una scintilla». L'importanza dell'uomo in un mondo ipertecnologico. «La componente umana è importante, spesso portavo a cena i ragazzi per ringraziarli. Bisogna trattare tutti allo stesso modo. Ho sempre cercato di essere vicino alle persone dal punto di vista umano». E ha sempre cercato di alzare l'asticella. «In pista non ho mai pensato di correre per non battere la Mercedes, come qualcuno fa adesso. Sarebbe inaccettabile, bisogna sempre entrare in pista per rendere la vita dura agli avversari del momento Non ci si sdraia davanti all'avversario».

Non è una critica alla Ferrari.

Perché «da tifoso Ferrari, non sono soddisfatto del risultato. Però è chiaro che la squadra va sostenuta soprattutto nei momenti difficili. È facile quando si vince salire sul carro...». Sperando che quel carro prima o poi riparta.

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