Fa male. Una, due volte. Fa male perché non è vero che perdere ai rigori, all'ottavo rigore per giunta, è meno dura. È l'amarezza nel giorno del dolore. Due mondi che non c'entrano e che si toccano: il lutto al braccio degli azzurri al centro del campo di Bordeaux è il segno di quel dolore. Siamo abituati a vedere quella fascia nera per ricordare qualche grande dello sport morto dopo una vita meravigliosa. È quasi l'emblema di una morte felice. Quella di ieri no. Ricorda nove persone massacrate dalla violenza dei terroristi. È la Nassyria civile capitata alla vigilia di una giornata che per l'Italia non è mai normale. La sfida con la Germania all'Europeo, cioè la partita infinita, seguito del seguito del seguito di tante altre. Cominciare il giorno di una partita così con le immagini che arrivano da Dacca trasforma tutto, inverte l'ordine dei sentimenti: l'attesa di un giorno felice, nella consapevolezza di un giorno triste, l'emozione per la partita nella mestizia della contabilità delle vittime, la voglia di guardarsi la formazione dell'Italia con chi gioca e chi non gioca, nel dovere di leggere e capire le storie delle vittime della furia dell'Islam fondamentalista.
Bordeaux non è l'Italia: ci sono frammenti di un Paese che in questa città cerca di continuare qualcosa che all'inizio di questo Europeo non era neanche immaginabile. Gruppi di tifosi che non possono o non vogliono essere consapevoli di quello che è successo dall'altra parte del mondo. O forse è semplicemente giusto che non siano consapevoli. Il calcio non s'è fermato l'11 settembre 2001 e non si dovrebbe fermare mai. A Bordeaux si gioca a pallone e non c'entra la retorica del «non dobbiamo darla vinta al terrore». C'entra solo che questo torneo è nato con l'idea che sarebbe stato sconvolto da qualche attentato terroristico. Eravamo tutti pronti. Pronti a raccontare gli stadi presi come simboli della serenità da violare. Pronti a vivere un altro 13 novembre 2015. Pronti a concedere al meraviglioso spettacolo dello sport anche la contabilità di vittime e feriti. Ma non avevamo calcolato che la minaccia non era soltanto lì in Francia, o in Belgio.
Abbiamo acceso il televisore venerdì per renderci conto semplicemente che non esiste un solo buco del mondo in cui non si sia in pericolo. Sembra scontato eppure gli italiani che erano andati a Dacca per lavoro, per vivere e far vivere le loro aziende non potevano pensarci. Non volevano pensarci. Come quelli entrati nello stadio di Bordeaux, anche loro incolpevoli e però potenziali vittime di un pazzo o tanti pazzi terroristi. Ma nessuno che si sia tirato indietro, nessuno che abbia pensato: «Io qui non entro, oggi». È l'altra dicotomia paradossale di un giorno così: pensare a quello che è successo e al tempo stesso non pensarci. E appunto non ci pensa nessuno neanche nei 90 minuti di Germania-Italia, proprio perché questa è Italia-Germania. Una partita che probabilmente non è stata la solita Italia-Germania, per Dacca e anche per altre cose. Perdere o vincere fa moltissima differenza, sempre. E soprattutto in una partita che per l'Italia e per la Germania rappresenta qualcosa di unico ogni volta che queste due Nazionali si incrociano. In una giornata così, non cambia.
Nel calcio e davanti alla tv per milioni di italiani conta il risultato.
Perdere è la fine di un percorso che non avrebbe dovuto neanche arrivare fino a Bordeaux. Il 2 luglio finisce nel momento in cui la palla calciata da Hector entra sotto la pancia di Buffon. È un giorno triste, per il calcio e per molto di più.
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