«Cristo!», sfuggì dalle sue labbra mentre Primo Nebiolo lo avvolgeva come un polpo la vittima. «Pietro, 1972! Record del mondo!». Gli occhi di Mennea si allungavano in un cono di vuoto, come non avessero compreso. Aspettava lui: un urlo, un applauso. Aspettavano loro. Ci volle qualche attimo ancora perché la testa finalmente si sbarazzasse di ogni tormento. In Italia era già ora del sonno: 23,15. In Messico, 2248 metri sul livello del mare, l'ora della siesta, le 15,15 di un mercoledì pomeriggio: mercoledì 12 settembre 1979.
«Cristo!» ,un' invocazione nel bello e nel brutto. «Cristo! Ma oggi cosa succede?», si domandò tutta Italia. L'Etna sul far della sera aveva ruggito: una colonna di cenere si levò dalla Bocca nuova e furono morti, nove, feriti, disperazione per 150 turisti affacciati sul cratere. Poi ci fu il lampo: Mennea che sfreccia sul cocuzzolo di Città del Messico. Non più polvere e lapilli, ma meraviglioso senso dell'impresa, 200 metri di orgoglio e fierezza, il segnale che l'umano, per qualche attimo, ha lasciato posto al sovrumano. Destino di ogni grande record. Così fu per Tommie Jet Smith, che si era costruito il suo 1983 proprio su quella pista 11 anni prima. Tommie l'uomo dal pugno chiuso sul podio olimpico di Mexico city. Pietro allora aveva 16 anni, correva per l'Avis Barletta. Adesso era un atleta fatto, che sarebbe stato tutta la vita sempre pronto ai blocchi di partenza. Stessa tensione, stessa voracità nel divorare la pista e le voglie esistenziali, stessa caparbia determinazione da far transumare nell'esaltazione.
Serviva il sorriso smunto, faticoso, di Mennea, i suoi occhi sgranati per un Paese devastato da un anno inquietante. Era l'anno di Apocalypse now, titolo perfetto se Pietro non ci avesse allungato un prodigio di sensazioni ed emozioni distillato in secondi. Una vigilia vissuta tra sguardi e tensioni con Vittori, Nazareno Rocchetti il prezioso massaggiatore preparava il solito doping: spaghetti e bistecca. Mennea e il professore avevano deciso di puntare sulle Universiadi, dopo la semina e raccolto del 1978. La settimana in altura, prima dei giochi Universitari, era stata fruttuosa: due temponi, un 198 manuale nei 200 e il record europeo nei 100 (1001). Eliminatoria e semifinale dei 200 in saliscendi: Mennea elettrizzante in batteria, con il record europeo (1996) strappato a Valery Borzov, più umano in semifinale (2004).
Qui ci giochiamo tutto, si dissero Pietro e Vittori. L'allievo allungò la mano al tecnico: non capitava mai. E strizzò l'occhio. Mennea prese in contropiede anche le nubi e la voglia d'acqua che imperversava su Città del Messico. Lo stadio mezzo vuoto, lui attovagliato sulla 4a corsia, la preferita, maglia azzurra numero 314. Fece subito il vuoto, non c'è limite a certa grandezza. Scrissero: lucertola sbiadita che sapeva sfidare anche le auto da corsa, se fosse stato necessario. Il polacco Dunecki (poi 2°), sembrava un'utilitaria dietro all'accelerazione dei primi 50, e così l'inglese Bennett, il brasiliano Silva de Araujo (in ordine di arrivo): 1038 per i primi 100, 938 nei secondi. Smith fece record passando i 100 in 1052 e gli altri in 931: una sorta di spalla a spalla. Il vento filava a favore (1,8 m/s), Pietro aprì il turbo dopo la curva, come in stato di ebbrezza fisica e mentale. E la sua corsa si allungò ben oltre il traguardo a prolungare la sensazione del volo.
Poi Nebiolo, presidente dalla bacchetta dorata, che sbucò sulla pista, il
mondo che cambiava, la leggenda che si alzava. Ci vollero 16 anni e 9 mesi perché arrivasse Michael Johnson a dirgli: fatti più in là. Ma le leggende non muoiono mai. Ne parliamo ancora dopo 40 anni, ne parleremo sempre.
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