Maledetta primavera e maledetta sciatica che ci ha risvegliato nella notte maledetta quando dieci anni fa ci rubò Pietro Mennea. Un sogno, tanti ricordi. Una vita insieme.
Lui che nel sogno ancora ci ricorda che le parole impossibile e mai non esistevano, perché bisogna sempre crederci. Dagli europei juniores a Parigi alla quarta finale olimpica sui 200 a Los Angeles. Lui e la Simeoni, fratello Pietro e sorella Sara, trappisti diversi nella benedetta scuola Zauli di Formia.
Gli abbiamo voluto davvero bene e mai avremmo pensato alle sue quattro lauree, ci bastavano, sbagliando, le medaglie sulla pista: eravamo insieme al Messico quando fece il record del mondo nel 1979, quel 1972 che va oltre la storia dei grandi velocisti.
Con lui nel tormento dei Giochi di Mosca nel 1980, un 100 metri senza fortuna e poi quella rimonta dorata sul gallese Wells per prendersi i 200. Con lui sempre, nei giorni della fatica, del tormento, degli inseguimenti a quella vespa diabolica che il professor Vittori usava per renderlo resistente nel momento in cui gli altri perdevano la coordinazione e i muscoli di seta non bastavano più.
Fratelli sempre, il giovane praticante, il futuro padrone di una storia che ci ha fatto brindare cento volte al sognatore per quanto folle potesse sembrare la sua sfida ad imprese impossibili.
Due litigate feroci soltanto quando i suoi «amici» se la presero con Berruti, la meraviglia che nel 1960 a Roma ci fece dimenticare gli esami di riparazione vincendo l'Olimpiade, poi il ritorno in pista quando pensavamo che dovesse assorbire in pace il colore della vita, senza ricordarne i dettagli che sono sempre volgari come quando un campione non accetta di ritirarsi.
Quando tornò in pista per sfidare ancora se stesso e noi eravamo davvero scettici perché non volevamo che si scottasse sulle pietre infuocate dove camminava il suo mentore di quei giorni.
Ci ha dato tanto, forse abbiamo perso davvero il contatto quando non abbiamo capito che un giorno, cercando la sua storia, avremmo scoperto la dicitura Pietro Mennea, politico.
Lo è stato, così come le sue quattro lauree ci hanno fatto capire che davvero i nostri limiti non sarebbero mai stati i suoi.
La compagna che avrebbe voluto incontrare prima, ma con Vittori era difficile sfuggire al sacrificio del lavoro, ora governa la fondazione a suo nome, l'atletica gli ha dedicato il suo Galà dorato, gli stadi hanno il suo nome, da Barletta, dove è nato nel 1952, a Roma dove è stato capace di volare, un treno veloce porta il suo nome, forse anche un aereo.
Brera lo chiamava lo stortignaccolo, ma poi, anche lui che considerava Rivera un abatino con l'arte magica, vedendolo disegnare quelle curve meravigliose, gli dedicò la sua magia giornalistica.
Ci manca il campione, stiamo ancora cercando la sua grande anima nei nostri grandi velocisti di oggi, da Jacobs a Tortu e, speriamo, in Ceccarelli, nella speranza che vadano a rileggersi la storia del ragazzo di Barletta che ha trovato il traguardo prima degli altri in quasi tutto quello che sfidava.
Per noi resterà sempre il Mennea che ad Oslo, prima di un meeting al Bislett, cercava di capire il genio di Prefontaine, attaccato ad una bottiglia di birra, mentre il professor Vittori lo inseguiva urlando perché stava perdendo tempo invece di riposarsi.
Che storia, che personaggi.
Bello anche sognarli, perché loro ci saranno sempre anche quando proviamo a ribellarci, una cosa che li faceva sorridere, ma che era il sale della vita che avevano scelto andando contro a tutto, a tutti e, soprattutto all'idea che ci fosse qualcosa di impossibile da raggiungere.
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