«Porca miseria, sono passati cinquant'anni. Se aspettavano ancora un po' non li vedevo più...». Il commento di Giacomo Agostini - la bellezza di 15 titoli iridati - è schietto e compiaciuto. C'è voluto mezzo secolo perché un'accoppiata pilota e moto italiana tornasse sul trono della classe regina.
L'ultimo a riuscire nell'impresa era stato lui con la MV Agusta. Correva l'anno 1972...
«Avere un pilota italiano che porta la tecnologia italiana a vincere nel mondo è motivo di orgoglio. Ai miei tempi mi presentavo nei circuiti con il casco tricolore bianco, rosso e verde, in sella alla MV Agusta, insomma era davvero una sorta di W l'Italia».
Come spieghi questi cinquant'anni di attesa?
«Se andiamo indietro nel tempo, arriviamo a quando italiani e inglesi in campo motociclistico erano i numeri uno. Poi sono arrivati i giapponesi, sono venuti a studiarci, hanno copiato e hanno creduto nelle due ruote. Le nostre aziende vendevano in Italia e poco più, loro invece hanno fatto moto con l'obiettivo di venderle dappertutto: in Europa, in Asia, in America. Noi eravamo artigiani, loro hanno fatto le cose in grande, producendo migliaia di moto al giorno; così hanno invaso il mondo. E quando si è ritirata la MV Agusta, al Mondiale 500 non partecipava più nessuna Casa italiana».
Nella Ducati di oggi rivedi lo spirito della MV Agusta di ieri?
«Certo: ieri era la MV a portare la nostra tecnologia nel mondo e oggi lo fa la Ducati. Dietro alle mie vittorie c'era una squadra che era una potenza, perché quando arrivavano in circuito lo facevano con un camion tre volte più lungo degli altri e nessuno aveva così tanti meccanici. Venire ingaggiato dalla MV era l'equivalente dell'essere chiamato a guidare la Ferrari per un pilota di Formula 1. Ricordo che al nostro primo incontro il Conte Agusta mi fece aspettare sei ore prima di ricevermi, ma per andare in MV si faceva questo e altro. Oggi la Ducati ripropone quella eccellenza, naturalmente in chiave moderna. Dietro non c'è più il padrone come ai miei tempi, ma una grande industria come l'Audi. Però la Ducati è orgoglio italiano, viene costruita in Italia, a Borgo Panigale, da un gruppo di ingegneri italiani con a capo un direttore tecnico italiano ed è gestita in pista da una squadra italiana».
Poi c'è Bagnaia, che con le sue vittorie ha fatto l'impresa. È avviato a diventare personaggio?
«Penso di sì. Lasciamogli il tempo. Per diventare personaggio bisogna stare davanti sempre, è così che si conquista il pubblico. Francesco va molto forte ed è un ragazzo per bene... Quest'anno all'inizio era un po' rigido, anche perché era carico di responsabilità: la Ducati si aspettava il titolo da lui e questo è un bel peso, soprattutto se non hai l'esperienza per sopportarlo. Adesso questo peso se lo è tolto...».
Il prossimo anno lo aspetta un compagno scomodo come Enea Bastianini.
«E questo sarà un confronto che piacerà agli appassionati e contribuirà a richiamare l'attenzione del pubblico sulla MotoGP.
Il compagno di squadra è il primo avversario, perché guida la tua stessa moto e se ti batte è stato più bravo. È un bello stimolo per Bagnaia e Bastianini e al tempo stesso per la Ducati è la garanzia di continuare ad essere protagonista perché con due piloti molto forti se non vince uno puoi sempre contare sull'altro».
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