Il ragazzo che giocava in Kenya con scorpioni e serpenti si ritrova la Francia ai propri piedi, nella cornice incantata dei Campi Elisi by-night. Il Tour numero cento si chiude con una storia vera più bella di qualunque favola inventata. Scollinando oltre il numero perfetto, la mitica corsa si apre al nuovo mondo, con risultati dell'altro mondo: vince l'Africa impensabile di Chris Froome, nato a Nairobi e cresciuto poi in Sudafrica, fino a emigrare in Italia (tre anni) e a farsi naturalizzare inglese. Alle sue spalle, un altro continente fuori mano, quello del giovane colombiano Quintana, che assieme al secondo del Giro (Uran Uran) lascia intendere chiaramente quale sia il futuro del nuovo ciclismo.
Il vecchio mondo, invece, arranca in coda e si accontenta delle frattaglie. Terza piazza, presa per i capelli negli ultimi chilometri, allo spagnolo Rodriguez, solo quarto il supposto e presunto antagonista di Froome, Alberto Contador, il che significa cocente batosta personale. Se la Spagna piange, l'Italia nemmeno sorride: una sola tappa (Trentin) e poche segnalazioni di giornata, a conferma che senza Nibali siamo naufraghi sperduti nell'oceano. Come la Francia, come l'Olanda e il Belgio, tutti più o meno a fare i comprimari. E persino come gli Stati Uniti, che dopo i fuochi fatui di Armstrong non danno più segni di vita.
Diciamolo: il ciclismo post-Epo, se davvero è una cosa nuova e diversa, cambia completamente la sua cartina geografica. Non sposta il discorso sottolineare come gli ultimi due Tour finiscano nel Regno Unito: dal punto di vista ciclistico, l'Inghilterra è esotica, perché arrivata da pochissimo e ancora tutta da scoprire.
Nel ciclismo del passato e della tradizione, un vincitore come Froome, così potente e prepotente, così inarrivabile e così imbattibile (vedi distacchi monumentali), sarebbe ora celebrato con toni e modi direttamente estratti dall'epica. Invece non è così. Froome ha stravinto ovunque, contro tutti, eppure nessuno si sogna più di lasciarsi andare. Neppure i segnali di umanità denunciati nelle ultime frazioni alpine inducono pubblico e critici a sentirsi tranquilli: il sospetto è che anzi Froome abbia tirato i freni proprio per non stravincere, per non strafare, per non stravolgere tutte le valutazioni. Non c'è più niente che si possa fare e dire per arrestare il nuovo modo di vivere il ciclismo. Là dove una volta erano epica ed enfasi, clamori e superlativi, oggi regnano sospetto e diffidenza. Non stiamo più qui a dire quanto sia bravo Froome, stiamo tutti qui a chiederci quanto sia vero Froome. Di effetti speciali se ne sono visti troppi, in questi anni, perché proprio adesso si possa credere tutto. Il nuovo fuoriclasse (presunto, eventuale, in libertà vigilata) giura di essere davvero nuovo, cioè diverso, cioè pulito. Di più: si spinge a riconoscerci il diritto di diffidare e di dubitare, al grido mi sembra normale, farei lo stesso anch'io. Il suo team, il danaroso e stellare Sky, è disposto a mettere sul tavolo dell'antidoping mondiale tutti i dati e i segreti del proprio atleta, per la serie la privacy non ci interessa, ci interessa solo la verità. Eppure, per quanti sforzi Froome e la Sky possano imprimere alla propria difesa, gli umori del mondo non cambiano.
In una civiltà evoluta come la nostra, è ingiusto e intollerabile dimezzare un uomo dei suoi successi e delle sue fortune sulla sola base di un dubbio. Froome potrebbe persino essere il primo campione pulito a uscirne da sporco, per il semplice fatto di dover pagare i conti pregressi, di troppi colleghi suoi, abituati a vincere e poi a sprofondare nelle vergogne. E' tutto ingiusto e intollerabile, povero Froome. Ma così ci hanno ridotti - incattiviti e imbarbariti - gli albi d'oro farseschi e taroccati di un'intera epoca.
Dovremo abituarci, a questo clima. Il nuovo ciclismo che esce dal Tour numero cento è triste, cupo, avvelenato.
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