Scendendo le scale che l'hanno condotto all’ufficio della dirigenza, Marcelo strofina il foglio che ha appena firmato con indice e pollice. Quasi lo stritola, ma è il suo modo per pensare. A Rosario la gente non se la passa benissimo, ma il pallone sa alimentare sogni che elevano sopra gli impicci della vita quotidiana. E lui, che ha soltanto 32 anni, potrebbe diventare uno di qui fabbricatori di felicità. La fronte è madida di sudore e gli occhialetti scendono in punta di naso. Rilegge ancora una volta il contratto che il glorioso Newell’s Old Boys gli ha proposto, poi si pizzica una guancia. Tutto vero. In basso a destra c’è scritto proprio Marcelo Bielsa.
Ha iniziato la sua carriera sette anni prima, nel 1980. Adesso, complici una serie di idee che hanno smantellato le convinzioni altrui sul modo di abitare la partita, la gerarchia interna è stata rosicchiata. Allenatore dell’under 18: bella responsabilità. Lui la prende tremendamente sul serio. Per far funzionare le cose bisogna attingere al serbatoio di talenti di cui è punteggiata l’Argentina. Solo che internet è ancora un’idea strampalata e i cellulari sono congegni avveniristici. Tocca mettersi in macchina, per annusare il terreno. Che poi è sempre l’opzione migliore, anche nel 2022.
Qui però risiede la striatura inedita del carattere Bielsiano. Se se ne va in giro con appiccicata alla schiena l’etichetta di El Loco, del resto, qualche motivo doveva pur esserci. Una qualsiasi persona assennata si limiterebbe al circondario magari sciroppandosi, al massimo, due o trecento chilometri. La sua ossessione per la perfezione applicata al calcio però è compulsiva. Quasi una smania. Una patologia interiore strisciante, portatrice sana di prodigi, che lo porta lontano. Molto lontano.
Bielsa strappa lo scotch con i denti e appiccica i quattro lati della cartina geografica dell’Argentina sul cruscotto polveroso della sua Fiat 147. Poi con un pennarello rosso segna tutte le tappe. Dal nord di Resistencia fino al profondo sud della Patagonia fanno 24mila chilometri. La macchina protesta. Lui affonda il pedale e si mette ricurvo sul volante.
Sarà un viaggio prolifico. Il paese è una gigantesca piscina di talenti che chiedono soltanto di rimanere impigliati nel retino. Su tutti però ne spicca uno. Si chiama Gabriel Omar, ama smodatamente i dolci e abita dalle parti di Avellaneda. Il cognome è Batistuta. Marcelo ha saputo che fa l’attaccante e vuole visionarlo a tutti i costi. Del resto puoi tappezzare l’ufficio di promettenti schemi tattici, ma senza chi la mette in buca il giochino rischia di impantanarsi in uno sterile autocompiacimento.
Suona al campanello. Gli apre Gloria, la mamma, una segretaria scolastica. Lo informa subito: il ragazzo, appena maggiorenne, ama la cioccolata molto più del pallone. Marcelo annuisce e va a vederlo. Sa muoversi, ma è ancora macchinoso e non ha l’istinto del killer. Va svezzato, insomma. La scintilla tra i due è immediata. Bielsa se lo porta appresso senza negargli niente. Continui pure a trangugiare dolciumi, ma come premio per i gol fatti. E Batistuta ne segna una caterva. Migliora fisicamente e tatticamente. Affina le sue abilità sotto porta, diventando un predatore letale. Al punto che, un bel giorno, il River Plate bussa. Ancora oggi il Re Leone non ha dubbi: Marcelo Bielsa è stato il suo più grande maestro.
Il volante è consunto e la Fiat 147
diventa buona per lo sfascia carrozze. Ma senza quei 24mila chilometri e ritrovamenti come questo, la storia del calcio mondiale racconterebbe il dilaniante rimorso che accompagna ogni potenziale inespresso.
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