Si può morire di gioia, si può morire di coraggio, si può morire di freddo. Storie di portieri: Arne Espeel (nella foto), 25 anni, stroncato da un infarto dopo aver parato un rigore nel campionato di seconda serie in Belgio; tragedia sotto gli occhi del fratello, calciatore della stessa squadra, il Winkel Sport. Appena neutralizzato il tiro dal dischetto, Arne ha lanciato l'ultimo urlo di gioia, poi si è accasciato sulla linea di porta: una striscia bianca solo leggermente più spessa del filo che separa la vita dalla morte. Arne non si è più rialzato.
Mentre ieri i siti rilanciavano il dramma di Espeel, Walter Veltroni sul Corriere della Sera con un articolo bellissimo rendeva omaggio alla memoria di Roberto Strulli, il portiere dell'Ascoli morto di coraggio nel '65, a 26 anni, per un'uscita kamikaze che gli fracassò il cranio. Ma anche l'emarginazione (parente malefica di quella «solitudine del portiere» tante volte evocata da scrittori e poeti) può uccidere (di freddo!) un portiere. Com'è accaduto, a gennaio, a Issaka Coulibay, ex portiere di una società sportiva dilettantistica di Milano, originario del Togo, 27 anni. Sotto la Madonnina era diventato «famoso» per le sue parate, ma l'unico riparo su cui poteva contare erano i legni della porta: due pali e una traversa, decisamente poco per sopravvivere al gelo delle notti invernali. Arne, Roberto, Issaka: tre nomi trasformati in tre lapidi (anzi, per Issaka neppure quella).
Forse è vero che, se sei un portiere, può capitare che il Destino decida di
riprendersi improvvisamente (e nella maniera più assurda) tutto ciò che ti ha regalato. Magari perché - come diceva Lev Yashin - «questo è l'unico ruolo che ti fa sentire un dio. E, a volte, anche Dio può essere invidioso...».
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