Lontano dallo spettacolo di Anfield, teatro del ritorno del Milan in Champions League dopo sette anni, e anche dal Bruges che battezzerà l'esordio in coppa di Leo Messi con una maglia diversa da quella del Barcellona. La partita più affascinante di questo mercoledì europeo si giocherà a centinaia di chilometri dal red carpet del pallone, in una nazione che non esiste, tra due realtà inesorabilmente legate alla forza centripeta di Mosca. È Sheriff Tiraspol-Shakhtar Donetsk, classica partita che passa inosservata ma che, al di là del campo, nasconde un fitto intreccio tra sport e politica.
Si gioca in Transnistria, una lingua di terra schiacciata tra Moldavia e Ucraina, fisicamente separata da Chisinau dal fiume Dnestr. Nel marzo 1992 la regione rifiutò di unirsi alla neonata Repubblica moldava e votò per rimanere nell'Urss, da lì ne nacque un conflitto durato cinque mesi, favorito dall'intervento dell'Armata rossa, che si risolse in un nulla di fatto. Da allora la Transnistria si considera uno Stato indipendente, l'Onu la ritiene parte della Moldavia.
Un non-luogo in cui sopravvivono simboli sovietici (la bandiera con falce e martello, i busti di Lenin e Marx per le strade) ma in cui il locale partito comunista ha pochissimi elettori. Un porto franco di criminalità e contrabbando, impresso nell'immaginario collettivo dal romanzo Educazione Siberiana di Nicolai Lilin, nato nella ribelle Bender. Un satellite di Mosca monopolizzato dalla Sheriff, azienda dei due ex agenti del Kgb Viktor Gushan e Ilya Kazmaly che opera letteralmente in tutti i settori. Anche nel calcio, dove Gushan ha costruito la squadra più forte del calcio moldavo (sì, gioca in Moldavia) capace di vincere 38 trofei dal 1997 a oggi. Negli anni la società ha speso oltre 200 milioni di euro, necessari per costruire una squadra vincente, uno stadio all'avanguardia e un modernissimo centro sportivo nel cuore della capitale, Tiraspol. Una regione che guarda a Mosca e che periodicamente ne chiede l'annessione, mai ottenuta.
Dall'altra parte, lo Shakthar Donetsk - ora guidato in panchina dall'italiano De Zerbi - è il simbolo delle aspirazioni imperialiste di Mosca. Una squadra in esilio, costretta a giocare a Kiev perché a casa c'è la guerra: è quella del Donbass, che in sette anni ha causato oltre 13 mila vittime e la distruzione parziale della Donbass Arena, stadio degli arancio-neri.
Nel 2014 Putin occupò la regione dopo aver annesso la Crimea, iniziando un conflitto che non è mai finito. Donetsk è diventata la capitale dell'omonima e inesistente Repubblica popolare, controllata dalla Russia ma formalmente ancora parte dell'Ucraina. Una partita, mille risvolti.
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