«Mi chiamo Fabio Cannavaro. Sono di Fuorigrotta. Gioco il primo anno nel Napoli. Prima stavo nell'Italsider. Mi trovo bene nel Napoli. Spero che il Napoli vinca». Fabio aveva 14 anni. E quella fu la sua prima videointervista (ancora oggi - a 36 anni di distanza - cliccatissima in rete). Sequenza cult: lo scugnizzo Fabio (medesimo bel sorriso di oggi e gran ciuffo, ma quello è ormai solo un ricordo...) è in compagnia di una decina di «giovani promesse» partenopee speranzose di «sfondare nel mondo del calcio».
Il gruppo ricorda la ruspante brigata del film «Io speriamo che me la cavo» di wertmülleriana memoria con il baby Cannavaro più interessato al pallone che ai libri di scuola. Tanto che il papà, dopo avergli comprato gli scarpini coi tacchetti, glieli tagliò dopo aver visto la pagella. Ma, nonostante ciò, il figlio se l'è poi «cavata» alla grande: a scuola, nella vita e nel calcio; soprattutto nel calcio arrivando a vincere nel 2006 il Mondiale, addirittura, il Pallone d'oro; per non parlare dei successi con la maglia del Napoli, Parma, Inter, Real Madrid, Juventus. Insomma, un autentico «titano». Non a caso - insieme con altri due «titanici» eroi azzurri (Marco Materazzi e Luca Toni) protagonisti di quel memorabile Berlino 2006 - è stato al centro della serata amarcord «Prometeon Meet the Titans» sul palco del Teatro Lirico di Milano.
Poche ore prima dell'inizio del talk show, moderato dal direttore generale di Prometeon Tyre Group, Roberto Righi, l'ex ct della Francia, Raymond Domenech (lo stesso che era sulla panchina dei transalpini nel giorno della finale di Berlino persa ai rigori proprio contro l'Italia di capitan Cannavaro), aveva attaccato gli allenatori italiens Gennaro Gattuso e Fabio Grosso (lui segnò il rigore decisivo che stroncò i Bleus), «rei» di essere stati ingaggiati dai due club francesi, Marsiglia e Lione. Che peccato! Anzi, quelle honte! direbbe monsieur Raymond.
Cannavaro, Domenech si è indignato per l'arrivo di Gattuso e Grosso. Non sarà che la finale mondiale persa ai rigori 17 anni fa non l'ha ancora digerita?
«Domenech deve farsene una ragione...».
Lei, dopo una gloriosa carriera «interna», è stato uno dei primi a esplorare, da calciatore e allenatore, il pianeta football in Cina e Arabia Saudita. Che esperienze sono state?
«Entusiasmanti. Chi le considera realtà da terzo mondo commette un errore».
Ma la «bolla» cinese pare essersi calcisticamente sgonfiata, accadrà la stessa cosa anche con gli sceicchi?
«Non credo che il football in Cina sia stato una bolla, né che si sia sgonfiata. Comunque in Arabia la situazione è diversa».
Perché?
«Dietro il lancio del calcio in Cina c'erano capitali per la maggior parte privati, mentre negli investimenti sauditi i fondi sono statali».
Quindi i tanti campioni europei approdati in Saudi League non sono una semplice operazione di facciata. Dietro c'è un marketing «governativo» dalle basi solide.
«L'Arabia Saudita punta ad ospitare i Mondiali. Devono dimostrare di essere all'altezza».
Mancini ha lasciato gli Azzurri, ora è sulla panchina della nazionale araba.
«Era difficile non accettare quella proposta. Anche se l'addio poteva essere gestito meglio».
Si può allenare la nazionale araba con l'obbligo di avere sempre a fianco un traduttore?
« Con l'interprete si allena benissimo».
Ora il Ct azzurro è Spalletti.
«Spalletti ha vinto il campionato ed è il numero uno».
Lei lo scorso anno è stato invece esonerato in serie B dal Benevento, poi retrocesso. Cos'è che non ha funzionato?
«Il mercato acquisti. I giocatori promessi non sono arrivati».
In compenso la sua popolarità è schizzata grazie alla pubblicità.Gli spot per Tim e Fratelli Beretta spopolano sul piccolo schermo.
«Sono tornato di moda (sorride ndr)»..
Il futuro?
«Fare ancora l'allenatore».
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