Il fisico è affusolato e l’occhio guizzante. Tiene le braccia conserte e predica calma, ma al momento opportuno sa come infondere lo sprint giusto ai suoi. In conferenza stampa si stringe nelle spalle. Dice che il suo mestiere principale è un altro, diverso da quello di allenatore. Lui è un raccoglitore di ricordi, sicuro lenitivo per disincrostare le ferite che verranno a bussare in futuro. E a Vicenza ne sta seminando di formidabili.
Francesco Guidolin si infila nella stagione ’97/98 da vincitore della coppa Italia. La Juve poi stenderà i suoi biancorossi in supercoppa, ma comunque l’impresa assomiglia ad una di quelle comete che sfrigolano nel cielo ogni mille anni. In campionato, del resto, il Vicenza metterà via una salvezza mediocre. L’alchimia che irrora questa provincia pallonara però non è svanita. Aspetta soltanto di collocarsi altrove. Così, dopo aver ispezionato i locali, annuisce con aria garrula: “La prendo”, dice, riferendosi alla coppa delle coppe. Quell’anno la competizione, ormai sedimentata nella naftalina, diventa il luogo metafisico in cui si addensano tutti i più ingombranti sogni biancorossi.
Sedurre una competizione europea con un sorriso poco disinvolto è un’impresa. Il Menti non è popolato da campioni di levatura globale, ma anche se lo spessore tecnico langue, la squadra racconta comunque un’anima da working class che si abbina alle intuizioni di un manipolo di illuminati. Tra i pali ecco Brivio, sintomo di affidabilità. Più avanti c’è la grumosa ruvidezza di Ambrosini a fare filtro, mentre di fianco fluttua Schenardi. In attacco, spigoloso e letale, il “toro di Sora” Pasquale Luiso si aggira tra le difese altrui sussurrando sentenze mortifere. Alle sue spalle un prestigiatore: Lamberto Zauli.
Il Vicenza sfoltisce in fretta il mucchio delle contendenti. Guidolin accompagna all’uscita Legia Varsavia, Shakhtar Donetsk e Roda JC. Il sentimento del tifoso medio, intiepidito dalle stroncature patite in campionato, si alimenta. Solo che in semifinale c’è il Chelsea della colonia italiana: Vialli, Zola e Di Matteo. Una iattura, se si considera che accanto a loro ruggiscono i vari Gustavo Poyet, Dan Petrescu e Frank Leboeuf. Guidolin, che aveva dichiarato di volere evitare i londinesi più o meno come un uomo del Trecento cercava di schivare la peste polmonare, deglutisce amaro. I blues non sono certo la corazzata di oggi, ma le spanne di differenza sono comunque montagne di cui non si vede la vetta.
All’andata però la provinciale biancorossa prova a grattar via un finale già scritto. Il Menti soffia sul cuore della squadra. Il Vicenza domina per lunghi tratti e alla fine l’1-0 che porta il cesello di Zauli appare quasi striminzito. Sul campo piove a dirotto, tanto che Guidolin esclama: “Vedete, sono talmente potenti che hanno trascinato qui il tempo di Londra”.
A Stamford Bridge rischia di essere tutta un’altra cosa perché, si sa, le italiane si smarriscono quando inalano l’aria britannica. Il 16 aprile il piccolo Vicenza vola nell’antro del leone. Sugli spalti, quasi 34mila supporter locali emettono una litania tombale, ma Luiso gliela ricaccia in gola sfondando la porta per il vantaggio inatteso. Adesso al Chelsea servirebbe un’impresa per accedere alla finale. Solo che i biancorossi si sfaldano. La tensione nervosa sopprime velleità di cristallo. I padroni di casa viaggiano al doppio.
Poyet, Zola e Mark Hughes indovinano l’antidoto alla pozione che aveva ipnotizzato tutti. Il sogno si infrange ad un pugno di metri dal traguardo.Sconfitti, ma che favola. Che ricordo. Guidolin slaccia un sorriso ogni volta che lo solleva per spolverarlo.
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