A Glasgow il palato non è mai stato raffinato. Da queste parti la pioggia ispessisce la pelle e lavora le ossa. Anche i sentimenti calcistici sono di grana grossa: per i ricami scampanellare altrove, prego. Celtic e Rangers hanno sempre applicato un forsennato agonismo a concetti e mezzi tecnici rudimentali. Così, se il 2 maggio 2002 sei uno scozzese purosangue e hai incollato le natiche ad uno dei cinquantanovemila seggiolini di Hampden Park, quella a cui hai appena assistito dev’essere probabilmente classificata sotto la voce “apparizione celeste”.
Il colpo di genio, del resto, se ne sbatte delle regole. Arriva senza preavviso, prende e porta via: tutto quello che puoi fare è contemplarne il mistero. Raúl ha spinto davanti il Real Madrid, ma Lucio l’ha ripreso subito, rimettendo in carreggiata il Leverkusen. Le aspirine fluttuano per il campo ordendo trame mortifere, determinate a scrollarsi di dosso la deprimente etichetta di “perdenti di successo”. Il Bayer è compatto e intenso. Per deglutirlo senza effetti collaterali servirebbe uno di quei prodigi che bucano il grigiore dell’organizzazione spasmodica.
La preghiera laica che si leva dal popolo madridista viene accolta quando la finale di Champions rintocca il metà tempo esatto. Qui abita l’imprevisto. Qui si consuma la scriminatura storica della partita. Roberto Carlos conquista il fondo e scaglia uno spiovente indecifrabile per molti calciatori mortali verso il limite dell’area tedesca. La palla, imbizzarrita, sembra metterci un’eternità a scendere. Sulla sua traiettoria, appostato da un pezzo, Zinedine Zidane attende paziente. Mentre si coordina sembra soppesare il da farsi per una frazione si secondo. Se addomesticarla pare una missione suicida, figuriamoci calciarla in porta. Tracotanza pura. Il piede, per giunta, è quello debole.
In casi come questo, tuttavia, lo spazio del razionale si affievolisce in fretta. Qui prevale l’intuito e pazienza per chi lo detesta. Zizou pianta la gamba destra nell’erba di Hampden, per dotarsi di un baricentro stabile. L’aria si fa più spessa e le pulsazioni salgono di ritmo. Ballack, che sta accorrendo dal retro rende l’idea ancora più impudente. Zidane però sa come dribblare i putridi sussurri della prudenza. Così inarca la schiena e si avvita, pronto a concludere. Per il tempo che ci mette ad accadere la cosa, sembra quasi di essere tornati ad una di quelle puntate di Holly e Benji, dove tutto scorreva al rallentatore. Il piede sinistro aggancia il pallone nel suo migliore punto di caduta. La sfrontatezza è premiata. La scia assomiglia a una di quelle decise pennellate di Chagall: s’infila sotto l’incrocio, flettendo al suo volere le pretese del senso comune.
Da queste parti mica ci sono abituati. I nasi si arricciano. La volée del cinque madridista è una merce che langue e va inspirata avidamente. Lo sa bene la UEFA, che infatti lo classificherà come “il gol più bello della Champions” indicendo un apposito concorso. Lo sa anche questo dinoccolato marsigliese, artiere capace di fabbricare sogni palpabili: “ci ho riprovato mille volte in allenamento, ma un gesto del genere non mi è più venuto. Arrivò una volta sola, al momento giusto, nel posto giusto”, commentava flemmatico il nostro, qualche tempo dopo. Toppmöller, che guidava il Leverkusen, rimase sconvolto e ammirato allo stesso tempo:
”Avremmo potuto passare tutta la vita a provare schemi in allenamento, ma poi in campo succede qualcosa che non puoi controllare. In questo caso è stato il gol di Zidane".
Irreale e
inatteso, dunque ancora più bello. Il premio per un francese che ha sempre saputo flirtare potente con il pallone e che, quella sera di vent’anni fa, salì sul trono di Scozia mettendo davanti il piede debole.
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