Il Pirata vive dentro di noi

Vent'anni fa finiva in modo drammatico la vita del campione diventato un'icona per tutti gli sportivi, non solo per i cultori del ciclismo. Per il suo addio, Marco Pantani "scelse" il 14 febbraio, la festa degli innamorati: e infatti l'amore dell'Italia per lui è rimasto intatto

Il Pirata vive dentro di noi
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Non vi parleremo del perché di una morte, ma del perché Marco Pantani è ancora vivo. Del perché stregò tutti in vita e in sella alla sua bicicletta, conquistando vette e traguardi, scalando colli e montagne. Venti di primavera che si avvicinano in questo inverno inoltrato. Venti d'amore a vent'anni dalla sua morte.

Venti senza il Pirata, volati via un po' come sapeva fare lui quando decideva di farlo: si levava gli occhiali e gettava via la bandana. Si alzava sui pedali e via di scatto ad abbreviare l'agonia di una fatica eterna alla ricerca di un traguardo infinito, con quell'incedere progressivo e ossessivo che sembrava per noi danza e armonia, per i suoi avversari sofferenza e dolore.

Non vi parleremo del perché di una morte, ma del perché Marco conquistò tutti, anche chi di ciclismo aveva poca contezza. La sua forza è stata questa: catturare la vista e i cuori di tutti, con il suo modo di intendere il ciclismo e le corse, portando lo sport del pedale fuori dai propri confini. Era magnetico e persino ieratico in sella alla sua bicicletta, anche se lui da ragazzo di mare che amava le montagne si è sempre sentito un brutto anatroccolo, anche quando è diventato cigno.

Era un centauro, metà uomo e metà bicicletta: solo su quell'arnese trovava il suo equilibrio. Pace e gioia. Solo in salita sentiva di avvicinarsi a Dio, puntando verso il cielo, con foga e compostezza. Con ferocia e leggerezza. Con rabbia e sublime bellezza. Per noi è stato tanto se non tutto in quel momento della nostra vita di sconcertante bellezza e di assoluta gratitudine sfociata in adorazione.

Da ragazzino passava inosservato; simpatico e monello lo è sempre stato, come tanti alla sua età, ma con le ragazze il più delle volte era trasparente. Ne soffriva, come tanti di noi, non era il solo, anche se Marco qualche menata in più se la faceva. Con la bicicletta, però, non solo si è reso visibile, ma riconoscibile e unico. Una sorta di supereroe assoluto, capace di scalare le montagne come i più grandi campioni del passato, come i Coppi e i Bartali, i Gaul e i Bahamontes. Ha fatto capire a noi boomer che di Coppi abbiamo solo sentito parlare, cosa devono essere stati quegli anni ruggenti, quell'euforia contagiosa e delirante di un'Italia unita per il ciclismo che si divideva tra Coppi e Bartali. Perché Marco è stato esattamente quella roba lì. Nessuno, dopo di lui, è stato in grado di incatenare i cuori allo stesso modo. Perché parlate solo di lui?, si lamentavano in tanti. Perché aveva un dono che si chiama carisma. Aveva una capacità innata di fascinazione che nessuno poteva vantare. Anch'io ho vinto un Giro, dicevano. Ma lui vinceva in un altro modo, portandoci in altri mondi, perché sulla scena bisognava avere quella cosa invisibile che ti fa vedere rispetto agli altri. Difficile da descrivere, facile da riconoscere.

Pensatela come volete, ma Marco Pantani in salita è stato di un altro pianeta. Faceva cose con una teatralità assoluta e tragica, seguendo un copione che pareva studiato a tavolino, ma era pura improvvisazione istintiva che noi tutti abbiamo imparato a conoscere e a riconoscere. Sapevamo perfettamente quando sarebbe stato il giorno, quale tappa, su quale montagna e in che punto avrebbe scatenato l'inferno. Con i suoi gesti ci aveva educato a riconoscerlo. Ora scatta. Ora parte. Si è tolto gli occhiali, tra poco getta via la bandana.

Si spogliava come a liberarsi di un peso, prima di librarsi in cielo, prima di dare inizio alla sua danza carica di rilanci nell'atto di raggiungere una sublime solitudine che si sarebbe trasformata come d'incanto in estasi e in sommo godimento.

Venti anni senza Marco. Venti di una primavera lontana che sta per tornare, ma non sarà più la stessa. Non vi parleremo del perché di una morte, ma del perché Marco è ancora vivo.

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