L'Hershey Sport Arena è un catino da 8mila posti conficcato nel cuore trillante della Pennsylvania. Fino a qualche anno prima il pubblico ribolliva per le imprese degli eroi sul ghiaccio, ma adesso l'Hockey è sfilato in secondo piano e quelle lastre gelide sono state rimpiazzate da un candido parquet. Certo non sarà l'impianto più indimenticabile di Philadelphia, ma se oggi fosse il 2 marzo 1962 allora sì. Perché in questa placida sera semi primaverile di sessant'anni fa esatti la storia accosta, spalanca la portiera e scende proprio qui. Eppure i presupposti, chiamati all'appello, avevano fatto spallucce per l'intero pomeriggio. Wilt Chamberlain, del resto, non è il tipo di persona che sembra avere il tempo di mettersi a fare distinguo. Non gliene frega assolutamente niente di vivisezionare la sua esistenza, appoggiando su due rette parallele quel che fa al caso della carriera da cestista e i comportamenti deprecabili che rischiano di rallentarla. Munito di un fisico da semidio e di doti tecniche surreali, Wilt non ha bisogno di discernere alcunché. Donnaiolo irredimibile, ama tirare tardi, alzare lievemente il gomito all'occorrenza e gingillarsi in sala giochi.
Che poi è esattamente quello che accade la sera del 1 marzo. Il nostro, un gigante di 2 metri e 18 che se ne va in giro a terrorizzare mezza Nba, ha sforato di brutto. Quando scruta le lancette del suo orologio da polso sgrana gli occhi, ma solo per una manciata d'istanti. Un giocatore professionista non dovrebbe piluccare avidamente tra i vizi della nightlife newyorchese prima di un match, ma ormai la frittata è fatta. La grande mela è una tentazione troppo potente per carni che fremono di debolezza. Wilt si attacca al telefono fisso di un bar e gira la rotella, componendo il numero di un membro dello staff dei Philadelphia Warriors, la sua squadra: "Sì, ma certo che arrivo. Ho perso una coincidenza, ci vediamo domani". Domani, appunto, c'è in programma la sfida ai New York Knicks. Il tizio dall'altra parte aggancia, furente. Chamberlain scrolla quelle monumentali spalle. "Pazienza - la sua auto indulgenza - tanto domino anche con un occhio chiuso".
Da New York a Philadelphia fanno 157 km in treno. Ne prende uno alle 6 del mattino, passando direttamente dai pub alla stazione, senza nemmeno sapere che forma possa avere un letto. Quando arriva trangugia un pranzo veloce e poi dritto in sala giochi: di riposare un po' non se ne parla. Ora il coach comincia a preoccuparsi sul serio, ma lui lo rasserena puntando su alcuni segnali inconfutabili: "Ho fatto solo centri a freccette e biliardo". Tardi, ancora una volta. Devono venire a strapparlo via dal flipper, ché la partita sta per cominciare. Forse rimanda quel momento fino all'ultimo istante pensabile perché sa che tutti lo odiano. I compagni, perché le sue qualità eccelse li fanno apparire come dei canarini bagnati. Lo staff, perché non conduce una genuina vita da sportivo, ma comunque non possono dirgli nulla. La stampa è la detrattrice principale: per i giornali dell'epoca, che gli dedicano al massimo trafiletti striminziti in ottava pagina, Wilt è semplicemente una belva che si avvantaggia di una prestanza fisica sconcertante per troneggiare: "Guardatelo ai tiri dal limite, non ne imbrocca uno". Gli avversari lo detestano in egual misura. Su quelle gambe da fenicottero sembra aver montato un motore a scoppio. Le braccia paiono terminare in un prefisso differente. Stoppa gente dalla stazza imponente con una mano sola. Surclassa chi tenta di arrampicarsi in cima al suo fusto gigantesco con una facilità disarmante. Spacca canestri (sul serio) e procura fratture multiple ai piedi sui cui ricade.
Arriva la sera. Si viene a sapere che Phil Jordan, il lungo dei Knicks, si è preso una specie di congestione. O forse non è vero, non c'è la riprova. Magari, insorgono e malelingue, ha soltanto paura di rimediare una figuraccia terribile. Al suo posto, per difendere l'onore di New York, gioca l'ex olimpionico Darrall Imhoff: ne uscirà triturato, con l'incubo - che viene a visitarlo ogni notte per i mesi successivi - di quelle braccia interminabili che lo sovrastano. Wilt versa in un tale stato di grazia che gli entrano anche tutti i tiri da fuori: a fine primo quarto ha già fatto 23 punti. Il suo diretto marcatore, giunto per disperazione al terzo fallo, inveisce contro l'arbitro: "A questo punto fagliene fare cento, così andiamo tutti a casa". Profezia a chiamata. Richiesta esaudita. Chamberlain continua a macinare punti con la cadenza di una mitragliatrice puntata su un gregge al pascolo. Alle soglie dell'ultimo quarto ne ha messi 75. Nel finale lo speaker smette di aggiornare il risultato. Il pubblico annusa il record. Altro che pattini e mazze sul ghiaccio. Questo fa 100 punti. La gente palpita per il miracolo e lui l'asseconda. Il centesimo lo fissa in schiacciata. Potrebbe farne altri due, ma decide di fermarsi lì "perché 100 è più bello di 102, dai", dirà alla fine. Qualcuno improvvisa: scarabocchia quella cifra irreale su un cartello e gli chiede di mettersi in posa. Lui sorride compiaciuto e per nulla affaticato.
Un'impresa da alieno, mai più eguagliata nella storia dell'Nba. E pensare che, all'epoca, non c'era il tiro da tre.
Il mattino seguente i giornali provano a sminuire il miracolo sportivo, riservando dei ritagli in paginette dimenticabili e sputando il fegato: "Facile da spiegare. Il peggior tiratore di liberi al mondo ha trovato una serata da 28 su 32". Il potere irrita chi non ce l'ha. È il 3 marzo 1962: Wilt sorride, accartoccia il foglio e centra il cestino più vicino.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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