Devo la conoscenza di Stefano Di Stasio a una mostra della Primavera del 2023, al Mart di Rovereto, a lui dedicata nell'ambito di una più vasta esposizione che raccontava la vicenda intellettuale di Plinio de Martiis e della Galleria La Tartaruga. Mostra voluta fortemente dal presidente del Mart, Vittorio Sgarbi, e curata impeccabilmente da Gabriele Lorenzoni. Come molte cose che accadono al Mart in questi ultimi anni, si va attratti da qualcosa di noto, per piombare nella meraviglia dell'ignoto. Così, infatti, pur avendo avuto notizia della galleria La Tartaruga, non conoscevo questo mirabile pittore nato a Napoli nel 1948, che Calvesi annoverò nel gruppo degli Anacronisti, tra i protagonisti della storica Biennale del 1984, che ha attraversato le mode artistiche del dopoguerra, giungendo, smagliante, sino a noi.
Ricordo con nettezza la prima impressione, entrata nella sala a lui consacrata del Mart: fu di spaesamento. Tutti gli elementi della composizione di ciascun suo quadro li conoscevo: c'erano uomini, donne, rose, figure geometriche, specchi e riflessi, case. Ma il loro l'accostamento, gli equilibri erano in disordine. O meglio, erano in un ordine diverso e nuovo, possibile all'immaginazione e non alle leggi della fisica che governano il nostro mondo. C'era una familiarità di cose e una estraneità di rapporti fra le cose. Come in un sogno. Ma il sogno rimanda a ciò che non può essere reale, mentre in Di Stasio ravvisavo qualcosa di più, una scomposizione del reale per aprire un varco nella oscurità e opacità del reale. I suoi dipinti sono enigmi, a volte sottolineati dalla cecità dei suoi personaggi.
Di Stasio ci accompagna sul ciglio di un abisso. Ci porta per mano sulla soglia in cui il mondo non è più come lo abbiamo sempre visto, ma non è ancora svelato nella sua ulteriore dimensione. Di Stasio ci mostra l'enigma, non lo scioglie, ma ci impone, gentilmente e con la perentorietà del suo bellissimo, classico disegno, di guardarlo per quello che è. La pittura gioca col visibile, e forse può raffigurare l'invisibile. E colpisce che sotto una camicia possono fiorire delle Rose. Una reminiscenza di Dafne, della mitologia che spesso Di Stasio convoca per suggerire enigmi su enigmi. E Di Stasio mi fa dire: «Fino a che punto le cose si possono mescolare? Come si possono mescolare? C'è una misura? Va bene tutto?».
Di Stasio disegna rapporti nuovi tra le cose, ma non arbitrariamente. Non troppe analogie, altrimenti la contemplazione sarebbe impedita da troppo fermento; non troppo poche, però, perché la contemplazione sarebbe inaridita, privata della meraviglia, del piacere, del desiderio. Il giusto mezzo, la giusta proporzione tra le cose sono il grimaldello con cui Di Stasio spalanca una nuova dimensione, mostrando l'enigma della realtà. Ma mentirei, se non parlassi delle sue rose, splendenti rose che adornano e letteralmente sbocciano nei suoi dipinti. Lo sbocciare di una rosa è una pienezza di senso, è pura bellezza e gratuità. Sono l'inatteso, la meraviglia.
Così, per questa venticinquesima edizione della Milanesiana, colpita dalla bellezza della fioritura delle sue rose, ho chiesto a Di Stasio di portare una sua mostra di dipinti in cui esse comparissero. Un omaggio a lui, omaggiando anche le venticinque rose della Milanesiana e la prima di esse, il modello di ogni rosa successiva, quella dipinta da Franco Battiato, un dettaglio di un suo quadro raffigurante un maestro Sufi (con Rosa). Mi è sembrato che la Rosa / le Rose offrissero un ulteriore possibilità agli enigmi di Di Stasio.
In realtà lui non ci abbandona di fronte all'Enigma, ma, a volte, indica la soluzione, togliendola dall'oscurità e dandogli la forma e il profumo e il colore di una rosa.L'ignoto che appare, direbbe Hugo von Hofmannsthal.
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