La stampa italiana ha quasi del tutto ignorato l'affaire: anche perché la vicenda è assai imbarazzante per l'amministrazione Biden e, ben al di là dei destini politici dell'attuale inquilino della Casa Bianca, per l'intero establishment progressista globale. I cosiddetti «Twitter Files», però, hanno scoperchiato un autentico verminaio, che ha fatto comprendere quali siano i rapporti inconfessabili che connettono talune multinazionali e l'apparato di potere della sinistra, abilissimi nell'agire di concerto e nel chiudere la bocca a chiunque avanzi critiche. Ovviamente, la macchina della propaganda mainstream anche nelle sue diramazioni provinciali, qui in Europa è costantemente all'opera per negare tutto o quanto meno per minimizzare. Adesso, però, iniziano a esserci pronunciamenti da parte dei tribunali e questo cambia lo scenario generale. Non sarà più così facile, infatti, nascondere la polvere sotto il tappeto. Negli scorsi mesi alcune ricerche giornalistiche hanno mostrato in che modo le principali agenzie federali intervenissero di continuo per gestire la discussione pubblica in tutta una serie di questioni calde: dalla pandemia allo scandalo delle elezioni vinte con i voti postali. È divenuto ben chiaro, insomma, come agisce la censura del terzo millennio. Da tempo gli utenti dei social network si chiedevano per quale ragione un post comparisse ovunque, mentre invece un altro aveva una limitatissima visibilità. È noto che i tweet non appaiono secondo un rigoroso ordine cronologico, ma le piattaforme non comunicano la struttura dell'algoritmo che determina la visibilità o meno di questo o quel messaggio.
Dopo l'acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk, sono però venute alla luce relazioni interne all'azienda. Grazie al lavoro di Matt Taibi e di altri giornalisti indipendenti, sono state sviluppate indagini sul modus operandi dei social e sono state rese pubbliche le conversazioni dei dirigenti del social: discussioni e strategie volte proprio a orientare in un senso o nell'altro l'opinione pubblica. Non si è trattato soltanto di ostacolare gli account di alcune figure, poiché in qualche caso (si pensi alla vicenda del computer di Hunter Biden, figlio del presidente) s'è lavorato proprio ad alzare un'autentica cortina fumogena attorno a notizie sgradite. Oltre a ciò, è stata anche costruita una blacklist che includeva personaggi pubblici da marginalizzare, impedendo alle loro dichiarazioni di avere impatto.
Un recentissimo pronunciamento da parte di un tribunale della Louisiana, però, apre una fase del tutto nuova. Nelle scorse ore, in effetti, il giudice federale Terry A. Doughty ha condannato le pratiche scorrette sopra descritte usando parole inequivocabili. Egli è arrivato a dire che «se le accuse fatte dai querelanti sono vere, il presente caso comporta probabilmente il più massiccio attacco alla libertà di parola nella storia degli Stati Uniti». Di conseguenza, ha ordinato l'eliminazione degli schemi censori adottati in precedenza.
Martedì era un giorno particolare per gli americani, dato che ricorreva l'Indipendence Day. Ebbene, proprio in quel giorno Doughty ha vietato ad agenzie e funzionari di Stato d'incontrare i social media per gestirne i contenuti. In sostanza, il giudice ha accolto le richieste dei procuratori generali della Louisiana e del Missouri, secondo i quali gli uomini al servizio dell'amministrazione Biden avevano violato l'autonomia dell'informazione quando avevano incoraggiato i media a prendersi cura di tutti quei post che potevano ad esempio far crescere lo scetticismo di fronte alle politiche federali in tema di Covid-19, vaccini e altro.
Le 155 pagine della sentenza, che senza dubbio è «storica» da vari punti di vista, segnano un passaggio cruciale. Secondo il magistrato, infatti, agenzie di Stato come il Dipartimento della Salute oppure l'FBI non possono interagire con i social «al fine di sollecitare, incoraggiare, fare pressioni o suggerire in qualsiasi modo la rimozione, la cancellazione, la soppressione o la minimizzazione di testi»; e questo non è ammissibile alla luce dei principi posti a difesa della libera espressione che sono enunciati dal primo emendamento della Costituzione statunitense.
Doughty ha ricordato quanto sia stata metodica e puntale l'azione concertata contro ogni voce dissenziente in tema di lockdown, mascherine e vaccini, ma anche sul tema della fuga del virus dal laboratorio di Wuhan e più in generale su ogni scelta politica adottata da Biden. Quello che il presidente dem e i suoi hanno costruito, in qualche modo, è una versione della Pravda nell'epoca del digitale. Perché è legittimo chiedersi se un'America in cui il presidente e i suoi amici complici addomesticano informazione e dibattito sia ancora una società libera.
Com'è noto, negli Stati Uniti una parte significativa della magistratura ha una matrice politica precisa: non soltanto nel caso dei nove giudici della Corte suprema. A questo riguardo va detto che lo stesso Doughty è stato nominato giudice federale, nel marzo del 2018, da Donald Trump e nei mesi scorsi s'è messo in luce, nel corso della pandemia, per aver contrastato ogni obbligo di vaccinazione per i lavoratori del sistema sanitario. Quella che ora ha luogo nei tribunali, allora, è anche e soprattutto una battaglia politica e al contempo culturale: un doveroso tentativo di resistere contro ogni forma di limitazione della libertà di espressione e contro la ferale alleanza tra i maggiorenti del potere, dell'economia, dell'informazione e della scienza.
Non bisogna dimenticare, infatti, che i maggior social media rappresentano il punto d'incontro tra le idee e i soldi.
In questo senso essi sono un fondamentale alleato dell'apparato politico-burocratico, a cui garantiscono consenso e finanziamenti, e da cui ricevono ogni forma di aiuto. Spezzare questa alleanza diabolica è dunque fondamentale, se non si vuole che la sinistra del «politicamente coretto» (alleata di finanzieri e intellettuali) non costruisca un nuovo fascismo, neppure tanto dissimulato.
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