"Con la storia di Annette creo un'epica moderna"

La scrittrice tedesca al Lingotto presenta il suo romanzo che parla di coraggio e giustizia

"Con la storia di Annette creo un'epica moderna"

Torino. Della scrittrice tedesca Anne Weber in Italia non si sa ancora gran che. Eppure è molto conosciuta nel suo Paese, per quanto abbia vissuto moltissimo in Francia. Anzi, pur essendo di lingua madre teutonica, ha cominciato a scrivere in francese, pubblicando le sue prime opere, a cavallo del secolo, in entrambe le lingue. Successivamente ha fatto il contrario: scriveva in tedesco e si traduceva da sola in francese.

È stata pubblicata per la prima volta quest'anno da Mondadori. Il suo romanzo epico Annette, un poema eroico (traduzione di Agnese Grieco, pagg. 182, euro 17.50) ha vinto l'anno scorso il Deutscher Buchpreis, forse il più importante riconoscimento letterario in Germania. Racconta le avventure di Annette Beaumanoir, una signora bretone nata nel 1923 e oggi, all'età di 98 anni, ancora desiderosa di raccontare le vicende di una vita alquanto intensa. Fiancheggiatrice della Résistence, studia medicina, partorisce tre figli e finisce in Algeria a perorare la causa dell'indipendenza. Fugge dopo una condanna a dieci anni di galera, ripara in Svizzera. In seguito tornerà in Francia, dove vive tuttora. Una vita segnata da una vocazione idealistica non sempre approdata ai risultati voluti. La Realpolitik, e soprattutto le infinite debolezze e meschinità degli uomini l'hanno spesso tentata dal mollare tutto. Questo dilemma fra tensione verso la giustizia e disillusione per la realtà è molto presente in questo libro, e ne costituisce in fondo l'ossatura. Per verificarlo, incontriamo direttamente Anne Weber al Salone del libro di Torino, dove oggi presenta il suo lavoro, mettendosi in gioco per la prima volta davanti a un pubblico italiano, e ne approfittiamo per fare una chiacchierata a tu per tu.

La prima curiosità riguarda proprio questa sua scelta di cominciare a scrivere in francese, anziché nella sua lingua d'origine. Perché?

«Credo che sia stato perché volevo mantenere una certa distanza dalla scrittura, trattarla come se fosse qualcosa di diverso da me, senza che c'entrasse troppo l'ego. Il modo per uscire da sé e osservarsi dall'esterno. Più tardi ho trasposto la stessa tecnica di scrittura anche nel tedesco».

Lei non ha scritto questo libro in una prosa tradizionale. Ha scelto di usare una cadenza epica, perciò a ogni riga va a capo. È una forma antica, ricorda quella dei poemi omerici. Perché ha imboccato questa strada?

«Perché è una forma particolarmente indicata a parlare di grandi temi, come la giustizia, la resistenza, e l'eterna questione su fino a che punto si sia disposti a spingersi a compiere azioni anche forti in nome di ideali che dopotutto sono astratti. All'inizio il libro può dare l'idea di un poema, perché ne ha il respiro, ma poi l'aspetto narrativo si fa predominante. Perciò è giustamente denominato come romanzo, e non certo per una semplificazione commerciale».

Annette Beaumanoir proviene da due famiglie molto diverse fra loro. Una nonna era illetré, cioè analfabeta, l'altra era di buona famiglia e disapprovava l'unione. La tensione si è stemperata solo dopo alcuni anni. Questo può aver prodotto conseguenze sul carattere di Annette?

«Credo di sì. Tutta la sua infanzia è stata segnata dal dualismo, dal contrasto fra le condizioni così diverse delle due famiglie. Questo può aver sviluppato il suo forte desiderio di combattere contro forme di ingiustizia, soprattutto sociali, fino a aderire alla resistenza francese e al comunismo, salvo poi cambiare idea sulle posizioni autoritarie del partito. Del resto Annette non aveva neanche diciotto anni quando l'esercito tedesco ha invaso la Francia e i nazisti hanno cominciato i rastrellamenti di ebrei e dissidenti».

Come è avvenuto l'incontro fra lei e questa donna così particolare?

«Per caso. Ero nel pubblico durante la proiezione di un film. Alla fine lei si è alzata e ha fatto un intervento molto interessante. Per me è stato una specie di coup de foudre, l'ho trovata subito molto affascinante e l'ho voluta conoscere. Ci siamo piaciute a vicenda, poi ci siamo riviste con calma, sono andato a trovarla nel suo villaggio nella Francia meridionale e lì abbiamo parlato».

Ma la signora Beaumanoir non aveva già scritto le sue memorie?

«Sì, e le aveva anche pubblicate, in un volume in Francia e addirittura in due volumi in Germania. Si trattava di un memoir, molto denso di ricordi personali e di informazioni, ma non un'opera narrativa, e tantomeno letteraria. Lei non ha mai preteso di essere una scrittrice. Il lavoro che ho fatto io è completamente diverso. Sono partita dalla sua testimonianza per raccontare una storia cercando di trasformarla in una vicenda universale».

Nel suo romanzo sono ricostruiti episodi anche molto specifici. Uno in particolare è impressionante. Annette aveva stretto una relazione con un suo compagno del movimento clandestino. Catturato da alcuni contadini collaborazionisti, fu ucciso. Neppure il sindaco del paese riuscì a fermarli. Però la ragazza non era presente. Come fa a sapere che le cose andarono realmente così?

«L'episodio della cattura e dell'omicidio di Roland è stato ricostruito da lei a posteriori sulla base di diverse ricerche e testimonianze, anche di persone che erano presenti all'episodio. Io del resto mi sono fidata sempre delle sue parole e mi sono attenuta a quelle, la mia poi è una trasposizione letteraria. Letteraria, non romanzata o romanzesca, e neppure una biografia. A un certo punto infatti è anche subentrata una parte di me. La descrizione delle sensazioni, delle emozioni e dei sentimenti fa parte del mio sguardo, per quanto la narrazione sia tutta in terza persona. Per tenere la giusta distanza ho appunto scelto la forma, per quanto insolita, dei versi liberi. Direi comunque che in un libro così il mio sguardo è più importante della verità oggettiva di ogni dettaglio».

La protagonista della storia diventa comunista quando è ancora una ragazza. Scopre che anche suo padre è coinvolto nella resistenza. Salva degli ebrei. Però il partito spesso la frena, le si oppone, non la appoggia per niente, anzi. Insomma, lei a un certo punto viene invasa da parecchi dubbi. Come è scritto nel romanzo, «Annette continua a sognare un paese socialista e giusto e non immagina minimamente - forse non vuole immaginare, ma sperare piuttosto - che cosa ne faranno in seguito questi uomini». È forse per questa ragione che, al momento di salutare Anne Weber, mi azzardo a farle un'ultima domanda.

Lei è o è mai stata comunista? Mi guarda con un'espressione al confine fra il divertimento e lo stupore. Sembra che sia l'ultima cosa che aspettasse di sentirsi chiedere.

«Annette già nel 1956 aveva lasciato il partito comunista. E consideri che io sono del 1964».

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