Storia di un sindaco amato tra consenso e mediazione

Nei tempi in cui a eleggerlo era il consiglio comunale sapeva muoversi con abilità tra i riti della politica

Storia di un sindaco amato tra consenso e mediazione
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C'era una volta Pillitteri, e c'era una volta la politica. Oggi a Santa Maria del Suffragio non si celebra solo il funerale di un ex sindaco, ma l'esequia postuma di una stagione che oggi appare lontana anni luce: l'epoca in cui a mandare avanti Milano era una classe dirigente rodata nei ritmi e nei riti della politica. E che con la politica - ovvero con la società - faceva i conti tutti i giorni. Sapeva essere cruda, complicata, a volte spietata quella politica. Ma non si arrivava a Palazzo Marino per acclamazione popolare.

Paolo Pillitteri è stato l'ultimo sindaco di Milano eletto dal consiglio comunale (in realtà l'ultimissimo fu Piero Borghini che durò pochi mesi e quindi non conta). Dopo di lui, la legge cambiò, si passò all'elezione diretta e questo mutò la natura stessa del candidato sindaco: da Marco Formentini fino a Beppe Sala, non c'è più stato un sindaco cresciuto nel lavoro politico, nella ricerca del consenso, nella fatica della mediazione. E la differenza nell'interpretazione del ruolo è lampante.

Di quella brutale macchina da selezione che erano i partiti Pillitteri era un esemplare anomalo, perché non aveva alle spalle la gavetta da assessore periferico del suo predecessore Tognoli, ma era comunque cresciuto dentro quel mondo. Ne conosceva le regole, anche per forzarle. Era - altra differenza da Tognoli - uomo di spettacolo, spesso istrione. La sua leggendaria sfuriata ai tranvieri in sciopero, apparentemente improvvisata, fu in realtà mossa calcolata, a favore delle telecamere convocate apposta. Ma sapeva che mandare avanti una città è possibile solo ascoltando tutti, mediando, cucendo.

Rileggere oggi il percorso che porta all'ascesa e alla caduta del Pillitteri sindaco è illuminante. Diventa sindaco a dicembre 1986, si dimette cinque anni dopo, nel frattempo la sua maggioranza è cambiata quattro volte, un valzer ininterrotto di alleanze, con la Dc e il Pci che si danno il cambio, uno dentro e l'altro fuori, ma con il Partito socialista motore immobile, perno di qualunque accordo, perché di un fatto Pillitteri era certo: «L'ultima cosa che il Psi perderà, sarà la poltrona di sindaco di Milano». In quei cinque anni accade di tutto, i repubblicani che danno fuori di matto, il Pci che cambia nome e poi implode, a fare da «vice» di Pillitteri arrivano due post comunisti illuminati come Luigi Corbani e poi Roberto Camagni, ma fuori da Palazzo Marino intanto monta l'onda ringhiosa dell'antipolitica. Un altro al posto di Pillitteri crollerebbe, lui invece non molla, l'ultima giunta viene nominata dal consiglio comunale alle sei del mattino, dopo dodici ore di seduta ininterrotta, con la buvette svuotata. In quei riti massacranti Pillitteri si muove quasi a suo agio, con due obiettivi concreti e congiunti: portare avanti Milano, portare avanti il partito.

Finisce come si sa, all'antivigilia di Natale del '91, dopo l'ennesima crisi, Pillitteri dice: non sarò più il sindaco.

All'esplosione di Mani Pulite mancano due mesi e la faglia del terremoto inizia a agitarsi. Ma la giunta cade su uno dei temi su cui oggi nessuna giunta cadrebbe mai: la grande operazione per portare la Fiera sull'area del Portello. Chissà se è meglio così.

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