"Mandate in meta il cuore. È la forza dell'Italrugby"

L'ex All Blacks fu il primo ct kiwi degli azzurri. Con lui l'esordio al 6 Nazioni e la storica vittoria con la Scozia

"Mandate in meta il cuore. È la forza dell'Italrugby"
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È stato il commissario tecnico della prima vittoria dell'Italia nel Sei Nazioni. Magari confonde Dominguez con Maradona, ma è solo questione di cognome visto che la precisione del «pibe de oro» è più o meno la stessa del numero 10 del rugby azzurro che con tre drop ha firmato quella vittoria contro la Scozia che per l'Italrugby pesa quanto un mondiale. Prima dell'Italia aveva portato le Fiji a far paura alle grandi durante la coppa del mondo del '99. Il premio? Una medaglia e la nomina a ufficiale onorario dell'ordine delle Fiji.

Poi l'avventura con gli azzurri e la prima vittoria, alla prima uscita nel Sei Nazioni. È stato il primo All Black ad aver allenato gli azzurri. Con Kirwan e ora con Crowley in tutto sono in tre. Ma quel sabato Brad non se lo scorda: «Ero appena arrivato, era un'esperienza nuova, una nuova squadra, nuovi giocatori - dice -. E il lavoro è stato soprattutto di testa. Entrare in campo con l'idea di fare tutto quello che era possibile per mettere gli scozzesi sulla graticola. Loro avevano vinto l'edizione dell'anno prima e francamente pensavo di sorprenderli. Batterli facendo in modo che si trovassero di fronte una squadra che nella loro testa rimanesse una debuttante. Ci è andata bene».

Quella partita resta nella testa di tutti gli innamorati del rugby. Magari ci ha illuso visto che poi i digiuni sono stati lunghi e amari. Eppure la si ricorda sin nei dettagli. Come per esempio le forze dell'ordine chiamate in massa al Flaminio per la paura di incidenti tra tifosi (già alla seconda partita il numero venne ridimensionato dalla prefettura). E poi l'inno cantato a squarciagola dagli spalti. «E stata la prima volta in cui ho visto il pubblico italiano totalmente dietro la squadra nazionale - prosegue Johnstone -. Ci hanno sostenuto per tutti gli ottanta minuti. In fondo è stata una vittoria anche loro. Poi c'era Diego, favoloso. Di quella giornata mi porto dietro molte cose».

Dopo l'avventura italiana, Johnstone è tornato a fare l'isolano delle Fiji prima di rientrare in Nuova Zelanda. Ora vive a Nord di Auckland e fa il saggio del suo club, il Northshore che come presidente oggi ha un altro totem degli All Blacks come il numero 8, Buck Shelford. Ai suoi tempi Brad diceva che il rugby finiva al numero 8. «Oggi non è più così - spiega -. E credo che sia meglio. Giocare al largo, muovere il pallone è una buona cosa. Ma se guardi bene le basi restano le stesse. Se non avanzi non puoi innescare i tre quarti. Il rugby moderno oggi lo fanno le difese. Ogni squadra ha un allenatore specifico per questo fondamentale e questo dimostra come il rugby in fondo sia resistente ai cambiamenti». La parentesi italiana di Johnstone non ha riguardato solo la maglia azzurra. All'inizio degli anni '90 aveva allenato L'Aquila e chi lo ha avuto come coach ancora oggi ricorda le sessanta mischie che ogni volta provava. Poi ti dicono, forse anche con qualche ragione, che quelle mischie se le ricordano anche gli avversari. «L'esperienza italiana - dice - mi ha insegnato che nella vita puoi anche incontrare chi non la pensa come te. È diverso da posto a posto il motivo per il quale un giocatore segue le tue idee. In Italia ho sempre incontrato persone che però nelle loro motivazioni mettevano il cuore e la voglia di andare oltre l'ostacolo. Curioso no?».

L'ostacolo oggi veste la maglia degli All Blacks che questa sera incrocerà il destino dell'Italia di un altro kiwi come Kieran Crowley. «È una bella squadra, giocano con entusiasmo e non vanno sottovalutati. Gli All Blacks? Scordiamoci di quelli che abbiamo visto durante l'estate.

E scordiamoci la sconfitta con la Francia: sono i padroni di casa e sono favoriti. Ma sono convinto che gli All Blacks possono crescere: hanno i numeri per farlo. La partita di Lione? Sono due parti importanti della mia vita, come fai a buttarti solo da una parte?».

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