"Una vita per il pugilato": la storia di Martina tra competizione e rivalsa

Campionessa nella vita e nello sport, Martina Caruso è diventata una pugile professionista tra sacrifici e decisioni importanti. Una storia di costanza e amore per lo sport

"Una vita per il pugilato": la storia di Martina tra competizione e rivalsa

È una forza della natura Martina Caruso, 32 anni, pugile professionista con una lunga carriera alle spalle da karateka che l'aveva portata a diventare una campionessa con un palmares di vittorie, sia in Italia sia all'estero. Da qualche anno ha tolto i guantini di karate per indossare "quelli più ingombranti", racconta ridendo, da pugile, in una storia che ha dell'incredibile e mostra, una volta per tutte, quando il sesso debole non lo sia affatto. Il suo è un racconto di rivalsa, di grande volontà e di quel caparbio desiderio di "arrivare alla vetta", nonostante, o forse sarebbe meglio dire grazie a, i tanti sacrifici, fisici e psicologici che, spiega, quando alza le braccia al cielo dopo una vittoria, la ripagano anche di quelle cene di famiglia piene di cose buone, che "la mia dieta non mi permette neanche di assaggiare".

Martina, perché una donna decide di intraprendere un percorso professionale in uno sport che è considerato prevalentemente maschile?

"In realtà io arrivo dal karate, uno sport che ho iniziato per caso quando ero piccola. Ho un fratello più grande e i miei si erano resi conto che ero una bambina tosta. Con lui nel confronto, come succede spesso tra fratelli, non mi facevo mai mettere sotto. Questo i miei genitori lo avevano notato e mi hanno detto: 'prova'. Da quel momento per me il karate ha rappresentato uno sport a cui ho dedicato tutto fino a che non ho iniziato l'università. Diciamo che l'aspetto della competizione è sempre stato molto importante per me. Guai se non partecipavo a tutte le gare. Se combinavo qualcosa la punizione era: 'oggi non vai a lezione di karate'".

Fino a che punto è arrivata?

"Cintura nera. Ero un'agonista che ha gareggiato nella nazionale italiana. Ho fatto i mondiali, gli europei e vinto i vari campionati. Gareggiando a livello agonistico ero impegnata sette giorni su sette tra allenamenti e gare".

Cosa le ha fatto decidere di smettere?

"Sicuramente non la passione che ancora oggi c'è, piuttosto il lato economico. Ci sono degli sport, proprio come il karate, con cui non puoi pensare di andare avanti nella vita; perché devi dedicargli tutto il tempo ma non hai un rientro economico che ti permette di poter vivere come succede magari con altre discipline e io non arrivo da una famiglia dove potevo permettermi di non lavorare. Così mi sono iscritta all'università e laureata in scienze motorie e ho trovato una palestra a Milano dove potevo insegnare karate. Le cose andavano bene, c'era tantissima gente, ma nel periodo del Covid ho capito che nonostante tutto qualcosa mi mancava profondamente".

Cosa?

"Non ero soddisfatta, avevo sempre un senso di inquietudine nonostante insegnare karate fosse una cosa che mi piaceva molto. Poi ho capito: mi mancava quella parte di competizione, l'adrenalina che conosce bene chi pratica sport agonistici e che ti fa andare avanti e ti motiva anche se, alla fine, con quello sport non ci puoi vivere. Mi mancava il mettermi in gioco, provare quella concentrazione pura pre-gara. Avendo vissuto per anni scenari sportivi importanti, come tre mondiali, quella sensazione era fondamentale per me".

Come è arrivata al pugilato?

"Sono cresciuta guardando i film di Rocky, quindi la boxe mi ha sempre appassionato, solo che quando sei piccola è difficile che i genitori te la propongano come sport. Invece il karate è una sorta di via di mezzo. A quel punto la prima cosa che mi è venuta in mente è stato contattare Francesco, un mio ex collega, che è diventato poi il mio allenatore. Mi ricordo ancora quando l'ho chiamato: era il 2021 e non ci sentivamo da tempo. Sono andata dritta al punto: 'Anche se ho 29 anni - gli ho detto - sento che ho ancora una fiamma accesa. Posso venire a fare una prova nella tua palestra?'. La chiamata l'ho fatta a luglio, a dicembre lui mi ha fatto debuttare nella prima gara a contatto pieno".

Una rivelazione per lei

"Assolutamente".

Cosa ha provato la prima volta che ha indossato i guantoni?
"A dire la verità ero abituata a quelli più piccoli del karate e li ho trovati un po' scomodi. L'emozione vera è arrivata al debutto, quando finalmente ho ritrovato quella sensazione che mi era tanto mancata. Quella di mettermi in gioco, la competizione, la gara. Con quella, ormai l'ho compreso bene, riesco a vivere tranquillamente la mia vita. Fa ormai parte della mia quotidianità".

La gara di debutto l'ha vinta?
"No, l'ho persa e per essere onesta non l'ho vissuta benissimo, anche se essendo più grande ho avuto una maturità diversa per affrontarla. Quando mi succedeva con le gare di karate era peggio. Però, quando abbiamo fatto la rivincita, ho vinto io e con la mia avversaria ci siamo incontrati anche alle finali delle cinture lombarde e ho vinto anche quelle. Non è andata male".

A che punto è la sua carriera?

"Ho fatto 30 match, sono tantissimi in così poco tempo. Non mi sono mai fermata e ho combattuto molto e anche con atlete molto forti, perché voglio crescere e, per farlo, devi per forza scontrarti con quelle, anche per capire il loro livello. Ho chiuso il mio 30esimo match da dilettante vincendo il bronzo ai campionati assoluti a dicembre e a gennaio 2024 sono passata professionista. Significa che non ho più il caschetto di protezione e da tre sono passata a fare fino a dodici round. I colpi sono più forti e i guanti non hanno più l'anti shock".

Quale è ora il suo obiettivo? Ci pensa alle prossime Olimpiadi?

"Alle olimpiadi non ci sono pugili professionisti solo i dilettanti, gli incontri si fanno in un certo senso 'protetti', con il caschetto e i tre round. Per me questo significherebbe tornare un po' indietro. Nella mia testa ora ci sono le cinture perché i pugili professionisti vincono quelle. Sono ambiziosa e ho un obiettivo grande: portare a casa tutti i titoli che posso".

Con il pugilato ora riesce a mantanersi?

"Non ancora, ma spero che crescendo da qui ad un anno possa farcela".

Che dicono i suoi di questa nuova avventura?

"Mio fratello e mio padre non si perdono una gara, sono sempre in prima fila a fare il tifo per me. Mia madre è un po' spaventata. È venuta una volta sola e mi ha visto con un occhio nero e il naso un po' storto. Da quel momento in poi è rimasta sempre a casa. Inutile dire che il pugilato è uno sport fisico e se decidi di farlo sai che puoi farti anche male".

Non è troppo violento?
"Al contrario, ognuno di noi ha dentro forza, ma anche anche un po' di rabbia. Io ad esempio non posso vedere tutte le cose che succedono ogni giorno in cronaca senza provarla, e quella, così come tutti i problemi che ognuno di noi ha nella vita, riesco a sfogarla sul ring. Se la gente si scontrasse più in un incontro sportivo forse ci sarebbe meno violenza in giro".

Quanti sacrifici ha fatto per arrivare a questo punto?

"Tanti, sia a livello fisico sia psicologico. Per me non esiste lo spritz, l'aperitivo, la cena con le amiche, e a volte, lo dico scherzando, quando incontro qualcuna in gara penso anche a quel piatto di pasta e a quel dolce che non ho mangiato proprio per arrivare a fare quell'incontro e un po' di colpa la do anche alla rivale che ho di fronte. Ovviamente anche lei sta vivendo le mie stesse cose, lo dico per spiegare quanti sacrifici si fanno quando si arriva ad un certo livello. Per non parlare poi di quelli fisici; anche se vinci, dal ring non scendi mai senza qualche piccola frattura o contusione. Comprendo perfettamente i ragazzini che dopo qualche tempo decidono di smettere".

Posso dirle: ma chi glielo fa fare?

"La boxe mi fa stare bene, mi rende una persona completa e felice. Questo mi ripaga di tutto".

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