Fabio Polese
Dacca. I controlli all'ufficio visti dell'Hazrat Shahjalal International Airport di Dacca sono lunghissimi. Da queste parti di occidentali non se ne vedono molti. Zero turisti. Ad arrivare qui sono quasi esclusivamente uomini d'affari che si occupano del settore dell'abbigliamento. La manodopera a basso costo fa gola a tutti, soprattutto alle grandi multinazionali che hanno aperto in Bangladesh filiali operative. Ed è difficile vedere stranieri, specie dopo la strage del 1° luglio 2016, quando un commando di terroristi che combattono in nome dell'islam radicale ha brutalmente ucciso ventitré persone innocenti, compresi nove cittadini italiani. All'uscita dell'aeroporto, l'aria è irrespirabile. Caos e rumore fanno da padroni. I clacson di vecchi motorini e di auto sgangherate suonano con insistenza, tra la folla accalcata davanti alle cancellate. Ed è proprio da lì che esce anche il nostro autista. Con il suo vecchio minivan ci porterà a Gulshan, la zona diplomatica della capitale. Quella dove un anno fa c'è stato il massacro.
I check point della polizia sono ovunque. Gli agenti, che nell'ultimo periodo hanno aumentato i controlli, fanno qualche domanda. Vogliono vedere se abbiamo i documenti in regola e poi ci danno il lasciapassare. Quando arriviamo a destinazione, davanti a noi c'è l'Holey Artisan Bakery, il ristorante dove si è consumato l'orrore islamista. In strada c'è silenzio. Qualche agente armato sorveglia il cancello d'entrata. A meno di cento metri c'è l'ambasciata italiana. Poco più avanti quella russa. Molti diplomatici e stranieri erano clienti abituali. Ed erano proprio loro quelli che i jihadisti volevano colpire. «Mi dispiace molto per quello che è successo, non so come sia stato possibile», dice con un viso provato Sadat Mehdi, il proprietario del locale che, in accordo con la polizia, ci accompagna dentro. Siamo i primi giornalisti a entrare nel luogo del massacro, per ragioni di sicurezza, però, non possiamo fare né foto né riprese video all'interno.
Quella del 1° luglio 2016 doveva essere la sera di un venerdì qualsiasi. Una cena spensierata tra amici o di affari per chi viene nel Paese proprio per business. Un turno di lavoro per cuochi e camerieri. Ma così non è stato. Intorno alle 21, un commando di terroristi fa irruzione nel locale e semina il panico. Vogliono gli stranieri, gli «infedeli». Cercano di capire chi dei presenti sia musulmano. Per farlo, chiedono di recitare il Corano. Chi non lo conosce viene prima brutalmente torturato e poi ucciso. Le forze speciali provano a mediare. Ma i colloqui non portano a nulla, così gli uomini della polizia fanno irruzione. È un massacro. La lunga notte di violenze spegne la vita di ventitré persone. Tra loro anche nostri connazionali, più il bambino che Simona Monti, una delle vittime, portava in grembo.
All'interno del ristorante si vedono ancora i segni dell'orrore. Nei muri ci sono i fori dei proiettili, quelli dei terroristi e quelli dei reparti d'élite governative che hanno provato a salvare gli ostaggi. Mentre Mehdi ci accompagna, prende il cellulare in mano per mostrare le foto di come era il locale prima di quel maledetto giorno. «Qui la gente si divertiva e passava qualche ora di svago. Anche io sono musulmano e non riesco a capire tutta questa pazzia», aggiunge. A oggi, in relazione all'assalto di un anno fa, sono state arrestate nove persone considerate collegate alla cellula jihadista che ha fatto irruzione all'Holey Artisan Bakery. Altre tredici sono state uccise durante le numerose azioni di polizia seguite dopo la strage. «Le indagini non sono ancora finite», ha spiegato Monirul Islam, capo della unità dell'antiterrorismo.
Gli stranieri hanno paura. Nonostante il governo abbia più volte dichiarato di avere la situazione sotto controllo e di avere aumentato i pattugliamenti, l'attacco di un anno fa, come racconta Paolo Mantellini, un italiano che da tanti anni vive in Bangladesh, ha cambiato per sempre la vita delle persone nel Paese. «La tranquillità che c'era prima non c'è più. Ora facciamo attenzione a tutti i particolari, ci guardiamo intorno», racconta. «Io sono cattolico e ora ho paura anche di andare in chiesa. Se le cose continueranno così, credo che sarò costretto ad andarmene via da qui», dice con rammarico. Che la situazione sia mutata è sotto l'occhio di tutti. «Dopo l'attentato a Dacca abbiamo molta paura», spiega Melecio Cuevas, un giovane missionario messicano che incontriamo quando ci spostiamo a Satkhira, nel sud-ovest del Bangladesh, per visitare l'orfanotrofio che i padri saveriani gestiscono da molti anni. «Ad agosto un gruppo di persone è entrato nella nostra chiesa e ha messo tutto all'aria. Stavo dormendo, quando all'improvviso il guardiano ha iniziato a urlare sotto la mia finestra per avvertirmi di quello che era successo. Mi ha chiesto di uscire per farmi vedere come avevano ridotto la chiesa, ma io non l'ho fatto». Si ferma un attimo. Poi aggiunge: «È già accaduto che i custodi siano usati dai gruppi estremisti per fare uscire il sacerdote per poi aggredirlo o ucciderlo». Da quel giorno l'orfanotrofio maschile, che ospita una sessantina di bambini, ha aumentato la sicurezza.
La preoccupazione per la situazione si sente anche nelle parole di padre Lorenzo Valoti, superiore regionale dei Saveriani che gestisce l'orfanotrofio e aiuta i pochi villaggi cristiani del distretto. Originario della provincia di Bergamo, il missionario è arrivato in queste terre difficili nel lontano 1981 ed è stato involontario testimone della trasformazione radicale del Paese. «Nell'ultimo periodo - spiega mentre mostra la struttura mantenuta grazie ai fondi che gli arrivano dall'Italia - il fanatismo è in preoccupante crescita». L'attentato di luglio 2016 è solo l'ultimo episodio che ha insanguinato il Bangladesh. In meno di due anni l'odio degli estremisti ha ucciso molti innocenti. «Sicuramente i primi a farne le spese sono i cristiani, una minoranza osteggiata in Bangladesh».
In un altro villaggio, non lontano da Satkhira, incontriamo Luc, 51 anni. È un catechista ed è terrorizzato da quello che gli è successo. Tre giovani musulmani, con la scusa di volersi convertire, hanno tentato di sgozzarlo. «Mi capita spesso che persone si presentino alla mia porta, perché vogliono sinceramente avvicinarsi alla Bibbia, ma in questa occasione ho notato subito che qualcosa non andava. Due dei tre giovani erano già venuti qualche giorno prima, forse per studiare la mia casa e preparare l'attacco». Il cristiano si ricorda tutti i dettagli. «Stavo leggendo san Matteo, quando all'improvviso due mi hanno bloccato e l'altro, da dietro, ha tentato di tagliarmi la gola con un pugnale». Mentre parla, alza il mento e con la mano indica la cicatrice che gli hanno lasciato. «Non ho perso conoscenza e ho iniziato subito a urlare per cercare di attirare l'attenzione dei vicini. Sono stati attimi interminabili. Non so come, ma sono riuscito a liberarmi e loro sono scappati».
Il Bangladesh, quasi 170 milioni di abitanti, è un Paese a stragrande maggioranza musulmana. Quella musulmana è la religione di Stato e più del 90% delle persone si riconoscono nel Corano. In questo contesto, in gran parte caratterizzato da un islam tollerante e moderato, però, l'estremismo sta aumentando. Le motivazioni sono principalmente due. La prima è intrecciata alla politica interna ed è strettamente collegata alla recente storia del Paese. In particolare alla guerra che nel 1971 ha portato all'indipendenza. La seconda, invece, riguarda una guerra in corso all'interno della galassia jihadista. Sia Al Qaida che lo stato islamico sono interessati a quest'area. Proprio in Asia il gruppo fondato da Osama Bin Laden ha puntato tutto: nel 2014, nel tentativo di contrastare la popolarità del Califfo, si è riorganizzata in tutti i paesi della zona, Bangladesh compreso. La scelta, quasi obbligata, è arrivata a causa della diminuzione di influenza dell'organizzazione in Medio Oriente. Intanto, però, l'Isis non è rimasto a guardare. Forte della popolarità conquistata in questi anni, ha iniziato a fare proselitismo e ha rivendicato numerosi azioni terroristiche nel Paese. Una «competizione» che ha portato ad aumentare di gran numero gli attacchi nel territorio.
Al contrario di come si è sempre sostenuto la povertà non c'entra. L'ignoranza neanche. I jihadisti presenti nel Paese sono i rampolli della borghesia di Dacca, cresciuti nelle migliori università private. «In passato i terroristi arrivavano dalle scuole coraniche, ma ora non è più così», spiega il reporter Ziaul Kabir, autore del libro Militancy & Media.
Lo incontriamo nel centro di Dacca, nel giardino del National Press Club, l'associazione dove convergono i più importanti giornalisti del Bangladesh. «Negli ultimi anni c'è stato un cambiamento netto, i jihadisti arrivano da famiglie ricche e non hanno nessun problema di soldi».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.