Una strana guerra civile travestita da rivoluzione

Anche se innestata su istanze libertarie, la stagione fra il '69 e il '78 ha dato frutti velenosi per la società

Una strana guerra civile travestita da rivoluzione

Milano, seconda metà degli anni Novanta. Invito a cena Perluigi Zuffada, Paola Besuschio e Giuliano Naria. I primi due sono ex militanti delle Brigate Rosse. Zuffada ex operaio della Sit Siemens e brigatista della prima ora, sodale di Renato Curcio. Besuschio era la compagna di Mario Moretti, il grande capo. Hanno entrambi scontato la pena. Il terzo, Giuliano Naria, s'è fatto più di nove anni di carcerazione preventiva per poi essere assolto con formula piena. Era accusato di aver fatto parte del commando brigatista che l'8 giugno del 1976 uccise a Genova il procuratore generale Francesco Coco e i due uomini della scorta. Ma non c'entrava niente.

Parliamo di quegli anni. Tutti ammettono le loro responsabilità. Perfino Naria dice: io sono innocente, ma frequentavo tali ambienti che avrei potuto finire anch'io nella lotta armata.

Quello che non sopportano è la tesi cospirazionista. Quelli che dicono che le Brigate Rosse erano al servizio di qualcun altro. Zuffada, qualche anno fa, è uscito allo scoperto per dire, anzi per gridare all'ex compagno Alberto Franceschini di smetterla con questa storia delle Brigate Rosse eterodirette. Basta con questa storia o meglio con questa leggenda di Mario Moretti infiltrato dei servizi segreti italiani e americani. Moretti s'è fatto più di trent'anni di galera, vi pare possibile che fosse una spia?

E anche noi, aggiunge Paola Besuschio, ci siamo fatti un sacco di galera: io per esempio quindici anni anche se non sono stata condannata per alcun fatto di sangue. La verità, dicono, è che noi volevamo fare la rivoluzione perché volevamo il comunismo. Volevamo più giustizia sociale, volevamo un mondo migliore e abbiamo tragicamente sbagliato.

Questa è la storia: pensando di fare il bene dell'umanità, le Brigate Rosse hanno ucciso gli uomini. Questa è la storia: l'illusione di una rivoluzione com'era stata quella di Ottobre. Che poi qualcuno ci abbia marciato su. Che poi ci siano stati gli infiltrati. Che poi i servizi abbiano messo o fatto mettere le bombe e che c'era qualcuno che ha pensato a un colpo di Stato. Che insomma tutto questo, d'accordo. Ma sul fatto che le Brigate Rosse nacquero rosse, il dubbio non può esistere.

C'è stata una guerra civile?

In un certo senso no, perché in Italia si poteva comunque andare a votare e c'era la libera stampa, quindi si potevano cambiare le cose anche senza passare alle armi, e quindi non è guerra civile ma terrorismo. Tecnicamente, diciamo.

Però in un certo senso sì, c'è stata una guerra civile, perché è innegabile che ci fossero almeno due parti in campo. Che il Paese fosse diviso. Che il Paese avesse paura.

Lo disse anche Cossiga che c'era stata una guerra civile. Nel gennaio del 2000 andai a intervistarlo a casa sua, a Trastevere. Avevo appuntamento alle quattro e arrivai alle tre e mezza. Il presidente emerito dormiva. Alle quattro si presentò in soggiorno e prima ancora di salutare disse: «Caro Brambilla c'è una cosa peggiore che arrivare in ritardo: è arrivare in anticipo». Gli avevo disturbato la pennica. Ma intanto in quella mezz'ora di attesa avevo fatto un giro della casa e visto almeno un centinaio di foto di Aldo Moro, ovunque. Appese alle pareti, appoggiate sui tavolini, sulle mensole. Moro. Cossiga era ministro dell'Interno, quando lo rapirono. Non essere riuscito a salvarlo fu, all'inizio, il suo grande rimorso; in seguito, la sua ossessione. Mi disse che era il momento di dare la grazia a Renato Curcio, il fondatore delle Br, proprio per dare questo segnale: lo Stato riconosce che ci fu una guerra civile.

Questo furono i peggiori anni della nostra vita: una guerra civile. E una guerra assurda, perché i primi moti giovanili degli anni Sessanta erano portatori di istanze libertarie. Basta con le baronie universitarie, basta con una società borghese che ai giovani sa proporre solo, come prospettiva di vita, le tre emme: mestiere moglie e macchina. Era una scialba esistenza che non si sopportava più e Francesco Guccini l'aveva ben cantata nella sua Dio è morto, che i bacchettoni della Rai avevano respinto e che invece era stata trasmessa da Radio Vaticana. Nelle auto prese a rate, nei miti dell'estate, in una politica che è solo far carriera, nelle fedi fatte di abitudini e paura, nel perbenismo interessato e nella dignità fatta di vuoto, Dio è morto.

Come poi una generazione abbia potuto pensare di inseguire la liberazione adottando un'ideologia ottocentesca e già fallita in tutto il mondo come il marxismo-leninismo, questo appartiene ai misteri dolorosi. Gli anni dal 1969 al 1978 sono stati orribili anche per questo: perché la libertà fu ingabbiata dall'ideologia e si volle giocare alla rivoluzione armata. Poi okay, la controparte ha fatto anche di peggio, dalle bombe ai depistaggi: ne abbiamo già parlato.

Se penso ai frutti di quella stagione, mi pare si debba prendere atto di una sorta di eterogenesi dei fini. E cioè: le speranze degli anni della contestazione si sono risolte nel loro contrario. Perché è vero che allora gli operai italiani erano i meno pagati d'Europa: ma oggi tutto il mondo è in mano a quattro o cinque colossi che fanno i miliardi tenendo la sede nei paradisi fiscali e pagando tre euro all'ora gli immigrati che vanno a consegnare i pacchi. C'era più divario allora tra ricchi e poveri o ce n'è di più oggi? Ed eravamo più consumisti allora o lo siamo più oggi?

E tuttavia.

Non so se siano stati davvero i peggiori anni della nostra vita.

Ogni tanto penso a che cosa scriverebbe oggi Montanelli, su quegli anni. Lui fondò il Giornale proprio per reagire alla sbornia ideologica e a quel nuovo conformismo, particolarmente ipocrita, che andava imperando. Ma, anche se nessuno è autorizzato a far parlare chi non c'è più, ho il sospetto che il grande Indro direbbe che sì, c'è stata una guerra e lui resta convinto di averla combattuta dalla parte giusta; ma a guerra finita si guarda negli occhi chi hai combattuto, e oltre a rendergli l'onore delle armi riconosci anche le sue ragioni. C'è un indizio: quando volle incontrare i brigatisti che lo avevano gambizzato: «Dieci anni dopo il mio ferimento, volli riconciliarmi con due dei miei attentatori: Lauro Azzolini e Franco Bonisoli. Lo feci perché nel mio antiquatissimo galateo sta scritto che i nemici caduti li si aiuta sempre a rialzarsi: soprattutto i nemici che, pur nella loro ferocia, si dimostrano uomini».

Forse, e sottolineo il forse, oggi Montanelli riconoscerebbe anche che il raggiungimento di tante libertà individuali, la fine del bigottismo e la messa in archivio di un certo formalismo, sono anche il meritorio portato di quegli anni.

Se poi penso a quel che fu prodotto allora nella musica e nel teatro, debbo dire che fu una eccezionale stagione di talenti. Se penso alla scuola e al mondo della cultura, penso che ci fu tanta miseria e vigliaccheria; ma anche una vivacità. Se penso a come fummo giovani allora, penso a tanta violenza ma anche a tanta partecipazione, a una passione mai più rivista negli anni del Nulla che sarebbero seguiti.

Sono stati, per la mia generazione, i peggiori anni della nostra vita ma anche i migliori, non fosse altro per il fatto che non so cosa, fra quarant'anni, si potrebbe raccontare dell'Italia di oggi. E non fosse altro per il fatto che furono gli anni della nostra giovinezza, la stagione che non si cancella, il tempo che ciascuno di noi vorrebbe rivivere in una qualche misteriosa dimensione, in chissà quale paradiso.

Se ci fosse luce sarebbe bellissimo.

(10 - fine)

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