Lo strano popolo delle televendite

Dal pioniere Guido Angeli al nuovo canale digitale dedicato agli acquisti. Ecco perché ci piace sempre più comprare in televisione

Lo strano popolo delle televendite

Guido Angeli roteava nel magazzino di Aiazzone tra una cameretta e un salotto «medio basso» che faceva tanto cultura italiana. In realtà, senza saperlo e tra lo sdegno dei più (girava la battuta «mobile Aiazzone, mobile di cartone»), reclamizzava una specie di Ikea ante litteram. Col suo «provare per credere» e quel movimento delle mani che simulava il gesto di un inciucio tra lui e lo spettatore. Roba provata davanti allo specchio per ore assieme alla piega gonfia del monocapello e al nodo del cashcoll. Chissà cosa sarebbe diventata Aiazzone se il suo fondatore non fosse morto in un incidente aereo e se Angeli (nomen omen) non fosse stato costretto ad aprire quell’ultimo messaggio promozionale commosso per la dipartita del suo capo, cercando di piazzare il prodotto che gli premeva di più: la meravigliosa figura dello scomparso signor Aiazzone. Fatto sta che fece storia. La fecero assieme Angeli e l’azienda. Erano iniziate le televendite. O almeno così le ricordiamo oggi.

Oggi che dagli Stati Uniti sta per sbarcare il colosso Qvc (dal primo ottobre, sul digitale, partirà la sua nuova televisione commerciale interamente dedicata allo shopping) che ha diciassettemila dipendenti nel mondo e 7,5 miliardi di ricavi; oggi che Mediaset tritura milioni con la Rolls Royce dei rivenditori multimediali (Mediashopping), viene in mente che in mezzo c’è stato di tutto. Prima che arrivassero questi luccicanti paradisi dell’offerta capaci di far sentire i teleacquirenti degli eunuchi in un harem: la «voglia di avere» schierata in programma. Dai viaggi alle pentole. Un’organizzazione che fa sembrare la storia preistoria. Veri e propri negozi virtuali dove un pezzo di chincaglieria non lo trovi neppure se piangi.
Roberto Da Crema iniziava le televendite già in debito d’ossigeno, già lavorato dalle conseguenze di ore di registrazione e di multe milionarie. Più che per interesse nei confronti dei prodotti si rimaneva sintonizzati con una certa apprensione per vedere se «il baffo» riusciva ad arrivare alla fine della puntata. Urlava bruscamente senza dare soddisfazione ai perché per vendere di tutto: dall’imitazione degli Swatch alla tuta dimagrante («della Nasa»), dalla scala snodabile, alle camicie, dai giubbini «in pelle-e-e» agli orologi russi Raketa. Diventò un personaggio televisivo e venne cacciato da un’edizione della Fattoria per una bestemmia in diretta.

Poi ci fu l’ondata degli orafi di Valenza Po con quel Sergio Baracco che ispirò «l’ahrarara» dei fichi D’India per via della sua erre moscia. Partiva composto e si sgualciva anello dopo anello. La televendita si trasformava via via in una minaccia: troppo ottimismo aggressivo. Picchiava i pugni sulla scrivania facendo traballare gli espositori, facendo tintinnare le collanine. Il nodo della cravatta si allentava, i capelli radi prendevano traiettorie fantasiose.

Poi ci furono le parentesi mal riuscite, le pagine nere delle televendite. Il brutto caso del «telefinanziere» Giorgio Mendella, la sua holding, la bancarotta fraudolenta, la sua fuga, la fine di Rete Mia. E, ovviamente, Vanna Marchi: dalle creme dimagranti ai numeri del Lotto, dalle pozioni magiche allo smascheramento da parte di Striscia la Notizia e alla condanna. Tornando al legale, vengono in mente le brevi, timide incursioni nei sexy brand con Jessica Rizzo o le creme dai poteri «allunganti» sponsorizzate da Maurizia Paradiso.

Poi si entra nell’era della Mondialcasa, con quelle sterminate batterie di pentole, roba da cucinare per tutto un condominio, assieme alle quali c’è sempre un’aggiuntina: cinque padelle, ma poi ti danno anche un televisore, otto pentole ma ti arriva anche una cyclette...
Sui materassi si sono esercitati tutti. L’antenato fu l’omino della Permaflex, poi sono arrivati Cesare Cadeo, Giorgio Mastrota e perfino Rita Dalla Chiesa. Interminabili stagioni a presentare tutto ciò che attiene lo star seduti o lo stare stesi, prodotti d’elezione, assieme ai tegami, per le televendite. Per non parlare dei coltelli, magistralmente animati dall’americano chef Tony: la lama gli andava come fosse sempre sul burro anche quando sminuzzava una lattina di birra vuota per riporla nella spazzatura con meno ingombro. Faceva venir fame solo a guardarlo con quel cappello a meringa la panciotta da godereccio e il sorriso di uno perennemente sazio. Un po’ come i teleacquirenti oggi: donne, per lo più, tra i trentacinque e i cinquantacinque anni. Immobili, commercialmente bombardate e comodamente sedotte. Pare che quest’anno il gadget che è andato per la maggiore sia stata la panca per addominali, quella con cui ci si fa la «tartaruga» con poca fatica.

Mentre gli anni scorsi sono andati forti la scopa «ruotante», il marchingegno per digitalizzare le cassette musicali e i dischi in vinile, la macchinetta per togliere i peli dal naso e i Babbi Natali da appendere al balcone. Perché lo shopping virtuale non denuncia i sensi.

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