Lo strappo di Napolitano, ma il compagno Giorgio prima zittiva il Quirinale

Il presidente "interventista" Francesco Cossiga fu aspramente criticato proprio dalle fila della sinistra

Lo strappo di Napolitano, 
ma il compagno Giorgio 
prima zittiva il Quirinale

Lo si può definire senza alcuna esagerazione come un vero e pro­prio ribaltone storico, sia su un piano giuridico costituzionale che su quello politico. È quello che da qualche anno vede prota­gonista la sinistra italiana che sembra essere diventata «presidenzialista», non certo per vocazione verso questa importante e democratica forma di governo, quanto per il fatto che alla guida del governo c’è Silvio Berlusconi. E quello che avviene negli ultimi tempi è davvero sorprendente per chi ha un po’ di pratica con la storia costituzionale italiana. In una battutasi può constatare il passaggio dall’antipresidenzialismo dell’era Cossiga, quando la sinistra affermava addirittura la necessità di un Presidente «silente », al quale negare anche il diritto di parola, alla visione «iperinterventista » del ruolo del capo dello Stato. L’assemblea costituente che ha fatto la nostra Costituzione affidò la redazione concreta del progetto alla commissione dei Settantacinque che si articolò in tre sottocommissioni. Di queste la seconda fu dedicata all’organizzazione dello Stato, quindi anche a configurare la posizione del Presidente della Repubblica. Le funzioni e i poteri del capo dello Stato, sin dalle prime battute, diventarono terreno di un serrato scontro fra i moderati, propensi a riconoscere un ampio ruolo al Presidente, e le sinistre che furono spasmodiche nel voler circoscrivere i poteri presidenziali facendosi paladine di una visione in cui la sua attività fu vista prevalentemente come accessoria e integratrice. I tentativi portati avanti da Aldo Bozzi, Giuseppe Codacci Pisanelli e Vittorio Emanuele Orlando, i tre autorevoli membri della Costituente, favorevoli a una più attiva partecipazione del Presidente al procedimento legislativo, furono non solo respinti ma anche malamente censurati come autoritari. Con l’aria che tirava Aldo Bozzi fu anche costretto a ritirare un emendamento con il quale si richiedeva la maggioranza qualificata delle camere per la nuova deliberazione di una legge rinviata ad esse dal capo dello Stato. Edgardo Lami Starnuti, esponente del Fronte Popolare, già sindaco di Carrara, espresse con chiarezza il «dubbio sulla convenienza politica di attribuire al capo dello Stato la facoltà di richiedere che le camere procedano ad una nuova deliberazione di una legge già da esse approvata ». Mentre Costantino Mortati chiarì che era «da escludere assolutamente un intervento del capo dello Stato sotto forma di sanzione ». La posizione più dura circa la necessità di limitare i poteri del Presidente della Repubblica fu quella del comunista Vincenzo La Rocca che, stando al verbale di una delle sedute in cui fu esaminata la questione, «è decisamente contrario alla proposta di attribuire al capo dello Stato la facoltà di richiedere, con messaggio motivato, che le camere procedano ad una nuova deliberazione di una legge già approvata». La dottrina più moderna non ha dubbi, pur accettando una collaborazione fra il capo dello Stato e il Parlamento, «tale collaborazione », come si evince dal Commentario breve alla Costituzione di Bartole e Bin, «non è comunque assimilabile ad una contitolarità della funzione legislativa in Capo al Presidente della Repubblica», (Spagna Musso, Diritto Costituzionale , 1992; Cicconetti, Enciclopedia del Diritto , XXXVII, 1988) anche perché, avverte Galeotti, il Presidente «non può esercitare un vero e proprio diritto di veto». Nel 1971, l’allora esponente del Pci, Giorgio Napolitano, in un saggio su L'insegnamento di Lenin nella prospettiva del Pci (pag. 17-18, allegato a Critica marxista ) scriveva: «Il nostro impegno è far assumere realmente e pienamente al Parlamento e a tutte le assemblee elettive il ruolo che la Costituzione loro assegna, ad attribuire loro un potere effettivo d’intervento... ». Dunque, l’onorevole Napolitano esprimeva il sentire comune della sinistra, in anni in cui il Pci rivendicava la centralità del Parlamento nella struttura costituzionale italiana. L’ampliamento dei poteri del presidente della Repubblica da oltre un decennio rappresenta uno dei temi più interessanti dell’agenda delle riforme, nella Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema si giunse addirittura a configurare un presidenzialismo alla francese.

È lecito teorizzare una Repubblica presidenziale, ma occorrerebbe farlo in un passaggio di revisione costituzionale e soprattutto investendo il corpo elettorale del potere di eleggere direttamente il capo dello Stato. Il rispetto che si deve alle istituzioni impone posizioni coerenti, basate su oggettive valutazioni che non possono essere mutevoli a seconda delle contingenze politiche del momento.

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