Strategia della poltrona

Sono quindici anni che lo Stato sta compiendo una vera e propria ritirata dall’economia. Lo avrà fatto bene, lo avrà fatto male, ma lo ha fatto. Mentre lo Stato faceva questo, gli enti locali non hanno fatto altrettanto. Ad oggi il 73 per cento dei comuni resta l’unico proprietario delle municipalizzate, nel 23,6 per cento dei casi ne mantiene il controllo e solo nel 3,4 per cento dei casi le aziende si muovono secondo logiche privatistiche.
Qual era la logica che aveva portato a spingere verso la privatizzazione di molte attività pubbliche e verso la liberalizzazione dei settori relativi a quelle attività? Quella contenuta nell'esperienza, nella maggioranza dei casi negativa, dello Stato imprenditore che alla fine produceva inefficienze, diseconomie, sprechi, debiti e, in particolare, non offriva servizi di qualità agli utenti, i cittadini. Si pensava, quindi, che avrebbe fatto meglio il privato (privatizzazioni) messo in concorrenza con altri privati (liberalizzazioni).
Una ricerca dell'Istituto Bruno Leoni ci informa che ciò è avvenuto abbastanza a livello centrale e poco o niente a livello locale. La ricerca si intitola «Convincere i riottosi» perché contiene una proposta provocatoria: di ridurre i trasferimenti dello Stato a quei comuni che hanno più dividendi, cioè maggiori ricavi dalle partecipazioni nelle varie aziende municipalizzate, e non lasciare questi soldi in mano allo Stato (che ne farebbe cattivo uso) ma destinarli per ripagare il debito pubblico, fornire incentivi fiscali per i comuni che ospitano opere strategiche per il Paese sul proprio territorio, fornire incentivi fiscali ai comuni che si aprono al mercato (ad esempio adottando i buoni scuola).
La proposta è forte. Convincere i comuni a fare questo sarà facile come convincere il cappone della bellezza della festa di Natale. Certamente passi in questa direzione si potrebbero e dovrebbero fare anche perché, come ricorda giustamente la ricerca del Leoni, ad ogni finanziaria lo scoglio più duro è proprio quello dei tagli agli enti locali. Chi non ricorda che pandemonio successe nel 2005?
Si deve riflettere sul perché gli enti locali tendano a rimanere imprenditori e proprietari. E bisogna anche dire subito che non siamo per una posizione ideologica né in un senso né nell'altro. Ma veramente tutti i comuni italiani tengono in mano queste partecipazioni perché rappresentano uno strumento indispensabile per servire meglio gli interessi dei cittadini? Sono tutti convinti attuatori del principio di sussidiarietà (lo fanno loro perché lo fanno meglio di come lo farebbero i privati) o, molto più banalmente, sono sostenitori del principio di sediarietà, cioè quello di tenere in mano il numero maggiore di sedie e di relative terga e soggetti titolari delle medesime?
Poiché la seconda ipotesi è la più ricorrente sarebbe bene mettere in piedi dei disincentivi perché ciò non succedesse.
Dopodiché c'è anche da dire che, in alcuni casi, queste aziende, con la presenza dei comuni all'interno sono dei fiori di aziende e che con difficoltà si potrebbe muovere loro degli appunti se non di essere ancora troppo vincolate, nelle scelte, dall'ente locale. L'Azienda Elettrica Municipale di Milano ne è un esempio.
Ma c'è altro ancora da dire, e la ricerca - in effetti - lo dice. La differenza troppo marcata tra ciò che certi comuni del Nord danno allo Stato e ciò che torna indietro porta i comuni ad inventarsi delle attività che, in qualche modo, assicurino loro introiti certi e di origine locale. Da questo punto di vista l'introduzione di un sano federalismo fiscale risolverebbe certamente molto.


Il punto rimane sempre lo stesso: servizi efficienti e a prezzi bassi. Da qui inizia la discussione, dati alla mano. Senza preclusioni. L'esperienza ci dice che molti comuni non ragionano dati alla mano ma date alla mano, quelle del rinnovo dei consigli di amministrazione. E così non va.

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