Roma - Una sera, al cinema, è andata via la corrente e lo schermo s’è spento. In fondo alla sala, un vocione caldo ha cominciato a rifare tutte le voci del film, temporaneamente invisibile, e gli spettatori sono rimasti appitonati dalla sceneggiatura: convinceva quel su e giù di toni, sembravano le parti vere, mancava soltanto l’immagine. Quando è tornata la luce, tutti a voltarsi, per vedere chi era quel goliarda virtuoso, capace d’intrattenere col sonoro finto e credibile, lì per lì. Enrico Brignano è fatto così: se c’è un uditorio, non resiste. Deve provarci. A far ridere, a catturare l’attenzione con battute surreali («Il bello di Milano? È che io so’ de Roma»), provenienti da un’anima quirite. Disincantata, cioè, e sorniona, bonaria, eppure feroce se c’è da castigare mores.
Non per niente, Brignano è andato a scuola da Proietti, al suo laboratorio di Esercitazioni Sceniche. E dal maestro ha imparato così bene che adesso il figlio del fruttivendolo Nino, in giro per mercati col pulmino usato delle suore, zeppo di mele e arance, s’è fatto una posizione nel sistema divistico italiano. E nell’attesa commedia dei Vanzina, La vita è una cosa meravigliosa, che a gennaio scalderà il cuore, svagandolo, Enrico ha il nome in cartellone, dopo quello di Gigi Proietti. E prima di Vincenzo Salemme e Nancy Brilli. Sono romano, ma non è colpa mia s’intitolano il libro del comico, nato nel 1966 a Dragona, borgata a pochi chilometri da Roma («Solo case abusive: se avevi il permesso per costruire, ti guardavano storto») e il suo spettacolo teatrale.
Però, la cosa che non t’aspetti da Brignano, con quella faccia spessa da prestante marcantonio popolare (la D’Urso gli ha detto «bono» in diretta tv e faceva sul serio), è che lui si sia studiato Le vite degli altri, il notevole film di Florian Henckel von Donnersmarck, ambientato nella Berlino Est della Stasi. Per rifare l’agente spione (lì il bravissimo Ulrich Mühe), con la cuffia incollata alle orecchie e il naso ficcato nelle altrui esistenze, però a modo suo.
È bello, Enrico Brignano, entrare ne Le vite degli altri per scoprire che La vita è una cosa meravigliosa?
«Stare ore e ore al telefono, a sentire linguaggi in codice, e scoprire che l’ucraina di cui sei innamorato fa la escort, non è il massimo. Perché il poliziotto che interpreto nel film dei Vanzina è addetto alle intercettazioni ambientali e finisce per investigare anche sulla sua, di vita privata. Ma dopo questa delusione cocente, verrò trasferito e, sempre ascoltando le altrui telefonate, m’innamorerò d’una massaggiatrice. Che però è una brava ragazza, che ha sentimenti veri. E questa è un’iniezione di fiducia: il messaggio che vuole trasmettere il film è avere fiducia nella vita e soprattutto negli altri».
Davvero si è ripassato il premio Oscar Le vite degli altri, per entrare in parte?
«L’ho visto e rivisto più volte. Per me è giusto fare le intercettazioni. Pubblicarle, però, non va bene per niente. È come se un genitore dicesse a tutto il condominio i guai del proprio figlio. Controllare, sì, ma con le dovute cautele. Dove finisce la privacy, inizia il regime».
Un comico popolare come lei, è per i filtri?
«La stampa non può pubblicare tutto. Alcune cose non possono essere dette. Un filtro ci vuole, se no è finita. Andiamo a finire come in Germania Est. Ora che il Muro è crollato, sappiamo che molte persone sono morte mentre scappavano. Ho visto un documentario sulla Stasi, dove si mostravano cose incredibili. Un ingegnere tedesco aveva costruito uno scooter subacqueo, per passare sott’acqua oltre la cortina di ferro! I comunisti non hanno inventato nulla di nuovo, quanto a repressione. Ma l’abbiamo scoperto un secolo e mezzo dopo».
Spesso utilizza la gamma nazionale dei dialetti, al momento rilanciati dal cinema. Che cosa rappresenta, per lei, l’uso del dialetto nella vita civile?
«I dialetti noi italiani l’abbiamo sempre usati. Solo che adesso se ne parla a livello politico. In realtà non sono mai andati via dalle nostre case, dalle nostre teste, dalle nostre bocche. Per la globalizzazione del linguaggio, sembra ci sia un abbandono delle forme dialettali. Insegnare i dialetti a scuola, come vuole la Lega, è impossibile. Qua non si riesce neanche a insegnare l’inglese! Come fa un insegnante calabrese, che va in una scuola piemontese?».
Sono romano, ma non è colpa mia, sia libro sia spettacolo teatrale, suona come una scusa...
«Noi romani crediamo di essere padroni del mondo, è vero. Ma il mondo non ha padroni. La situazione ti sfugge continuamente di mano. Per fortuna».
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