Sul dialetto l’Europa non ci capisce nulla

Strasburgo, 16 settembre 2009, il deputato del Pdl, Enzo Rivellini, prende la parola in un affollato europarlamento. I traduttori mettono le cuffie alle orecchie, pronti a trasmettere al mondo le idee del politico campano. Questi, però, invece di iniziare il discorso nell’idioma di Dante, lo inizia nell’idioma di Totò: «Vulésse parlà napulitano nun pe fa casino ma pe fa capì a tutta l’Europa ’e prubléme d’’o Sud» («vorrei parlare napoletano non per far confusione ma per far conoscere a tutta l’Europa i problemi del Sud»). I traduttori si guardano perplessi, non riescono a credere alle proprie orecchie: che razza di lingua è mai quella parlata dall’oratore? Rivellini continua imperterrito: «Presidente Barroso, l’aggio vutato e le chiedo d’essere ’o presidente ’e tutta l’Europa, pure d’’o Sud, pecchè o Sud è ’a porta ’e ll’Europa e sta mmiez’’o Mediterraneo» («presidente Barroso, l’ho votata e le chiedo di essere il presidente di tutta l’Europa, anche del Sud, perché il Sud è la Porta dell’Europa e sta nel mezzo del Mediterraneo»).
Un mormorio attraversa l'aula; uno dei traduttori abbozza una risata, un altro toglie la cuffia sconfortato. Rivellini continua: «Ausànno 'na metafora, putèsse dìcere che 'a nosta protesta è comme quanno schizzechéa: evitammo c'arriva 'o pate abbate 'e ll'acqua» («usando una metafora, potrei dire che la nostra protesta è come quando pioviggina: evitiamo che si scateni il diluvio universale»).
Del discorso di Rivellini, nessuno capì niente, naturalmente, ma forse servì al suo scopo, quello di porre l'attenzione dell'Europa sul Sud d'Italia.
Una decina d'anni prima, uno psichiatra napoletano di nome Claudio Ciaravalo (di cui si interessarono i media per le sue numerose provocazioni: finte cinture di sicurezza, lacrime di Berlusconi in provetta, aria di Napoli in barattolo ecc.), volò a Mosca per vendere nella piazza Rossa un adesivo di sua invenzione. Posto un bancariello (banchetto) a pochi metri dal Cremlino, cominciò a imbonire la folla: «Accattàteve 'a voglia 'e Gorbaciòv! Accattàteve 'a voglia 'e Gorbaciòv!» («acquistate la voglia di Gorbaciov! Acquistate la voglia di Gorbaciov!»). Pur senza munirsi di vocabolario russo-napoletano, i moscoviti, per vie misteriose, capirono di cosa si trattava, e comprarono in migliaia l'originale adesivo.
Ora apprendo che un pescivendolo triestino è stato multato di 1.100 euro per aver esposto un cartello dove le alici erano chiamate «sardòn». Pare che ci sia una direttiva europea che vieti l'uso del dialetto al posto della lingua nazionale nell'indicare un alimento posto sul banco di vendita. A me questa sembra una multa assurda. Fatevi un giro per alcuni quartieri popolari di Napoli: troverete che i pomodori sono venduti come «pummaròle», i mitili come «cozze», le lumache come «marùzze» ecc. E credo che lo stesso avvenga un po’ in tutta Italia.


Caro eurocrati che decidete queste regole astruse, sappiate che il dialetto è la testimonianza più viva della nostra cultura: un mercato non è l’Accademia della Crusca. È il luogo d'incontro del popolo, che spesso pensa e parla in dialetto.
Perciò, viva la pizza ca pummaròla 'ncoppa!

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