Non c'è niente da fare; Ian Anderson che suona il flauto su una gamba sola è uno dei simboli più amati della storia del rock. È una delle icone di un periodo d'oro della musica, quando il rock grondava ispirazione e forza diventando il genere musicale più amato dai giovani. Si parla degli anni Settanta, sembra un secolo fa, anche se molti segnali sembrano confermare che anche i giovani stiano riscoprendo, sull'onda dell'effetto Måneskin, questo tipo di sonorità, quelle di Led Zeppelin, Deep Purple, Jethro Tull, Genesis eccetera. Ormai ultrasettantacinquenne, nato vicino a Edimburgo, Ian continua ad esibirsi alla guida dei Jethro Tull (e da solo) e lo farà ancora nel nuovo tour europeo che è passato in Italia il 12 febbraio al Parco della Musica di Roma, il 14 al Teatro EuropaAuditorium di Bologna e stasera 15 febbraio agli Arcimboldi di Milano. Ma il musicista ha pronti anche due album, uno solista e uno con i Jethro Tull, che arriveranno ad aprile, a conferma di una voglia di mettersi in gioco che, dopo oltre mezzo secolo, non si è ancora esaurita.
Lei è una leggenda vivente.
«Non vorrei esaltarmi troppo, diciamo che lo sono per i miei fan e questo mi basta».
Cosa la spinge a continuare dopo mezzo secolo?
«La curiosità e l'amore per la musica e per la gente. Quando cominciai a mettere le basi dei Jethro Tull, nel 1965-66, non pensavo che avremmo ottenuto questo successo. Volevo suonare una musica mia che comprendesse vari tipi di musica. Avevo un progetto ambizioso e nulla più».
Come definisce la sua musica?
«Ci sono molti tipi di musica come ho detto, così come molti partiti politici, molte razze; insomma c'è una molteplicità di cose. Io amo il rock, il folk, il blues, la musica classica e tante altre cose ancora, l'importante è metterle insieme in modo che attirino il pubblico. Possiamo essere una classic rock band o una progressive rock band, anche se di progressive ce n'è un po' soltanto in Thick As a Brick, ma credo che tutto sommato siamo una folk rock band».
Con una passione spiccata per la musica classica: tutti ricordano la sua Bourrée di Bach.
«Un omaggio ad uno dei più grandi artisti di sempre; se avessi potuto avrei fatto anche qualcosa di Beethoven che è un altro degli artisti che amo di più. Poi però amo le radici anglo-scoto-irlandesi da cui sono nato».
Qual è il segreto per attirare il pubblico per oltre mezzo secolo?
«La sincerità e la voglia di divertirsi. Il primo brano con cui ho capito di avercela fatta è stato We Used to Know, poi è andato tutto in discesa».
Con «Aqualung» avete scalzato i Beatles dalla vetta delle classifiche.
«Aqualung era un concept album, cioè un disco che conteneva una storia. Un disco vario e complesso - parte acustico e parte elettrico - ma facile da comunicare alla gente. Era pieno di contenuti e di suoni diversi. Non ci aspettavamo questa esplosione ma brani come Aqualung e My God, col mio assolo di flauto sono ancora tra i preferiti dai fan».
Dopo «Thick As a Brick» il successo è un po' diminuito però.
«Abbiamo sempre venduto bene e soprattutto fatto la musica che ci piaceva suonare, con influenze celtiche».
E poi c'è il rito del flauto suonato su una gamba sola.
«Sì, viene dalla mia passione per gli antichi miti celtici e del resto del mondo. È divertente anche se adesso un po' faticoso».
Non le pesa andare in tour?
«No, mi esalta, adesso giriamo l'Europa, dopo l'Italia saremo in Francia e in Spagna. Spesso i fan ci seguono nei concerti in tutta Europa, è galvanizzante».
Nuovi progetti?
«È uscito un mio album solista e ne sto preparando un altro e il 23 aprile dovrebbe uscire un nuovo lavoro dei Jethro Tull. Non mi fermerò finché mi è possibile, e poi ho un repertorio enorme in cui spaziare».
Da solo fa musica vicina alla world music.
«Sì, ma anche alle antiche culture popolari di tutti i paesi del mondo, sono alla continua ricerca di ispirazione».
E la musica di oggi, il rap, l'hip hop?
«Non ascolto musica se non la classica, Beethoven e Bach come dicevo ma penso che oggi manchi un po' di sano e vecchio rock and roll classico».
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