Svizzera, spot in tv per dire agli africani: "State a casa"

Il videoclip, trasmesso in vari Paesi del Continente nero, vuol far sapere che emigrare non sempre migliora la vita. Il filmato tacciato di razzismo ha avuto l'ok dell'Unione eruopea

Svizzera, spot in tv per dire 
agli africani: "State a casa"

Lugano - «Ma ora non dite che siamo razzisti. È vero esattamente il contrario». Parola di Jemini Pandya, che parla a nome di Christoph Blocher, il leader della destra conservatrice svizzera, che la stampa internazionale continua a descrivere come populista e xenofobo. Jemini è la portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, l’ente intergovernativo che ha prodotto un clip che nelle ultime ore sta circolando su Internet, suscitando molto clamore, soprattutto a sinistra (guarda il video nel blog di Marcello Foa).

Alcune testate, anche autorevoli, lo attribuiscono a Blocher con toni sdegnati. Ma quel filmato non ha nulla di scandaloso. Mostra un giovane camerunese che chiama a casa da una cabina, appena sbarcato in Europa. La conversazione sembra normale: il padre chiede come va e il figlio risponde che va tutto bene, ma mente. Descrive una realtà fittizia per rassicurare il genitore, con l'ausilio di qualche equivoco semantico. Dice di aver trovato un lavoro, ma in realtà è costretto a mendicare, afferma di fare dello shopping, che in francese si dice «faire des courses», letteralmente fare delle corse.
E lui corre davvero, ma non da un negozio all'altro, bensì per sfuggire alla polizia. Dice di essere ospitato in casa da amici, in realtà dorme sotto i ponti. Il vecchio chiede: non mi stai mentendo? Lui replica: certo che no. E per rassicurarlo gli dice di essersi iscritto all’università, in realtà passa le giornate a chiedere l’elemosina per strada. Lo spot - girato in francese e in inglese - si chiude con queste parole: «Non credere a tutto quello che senti. Partire non migliora sempre la vita».

Il clip è stato trasmesso dalla tv nigeriana nell’intervallo della partita di calcio Nigeria-Svizzera lo scorso martedì 20 novembre. Un giornalista del popolare SonntagsBlick se n’è accorto, e ha fatto lo scoop, subito ripreso dagli altri media, che hanno subito puntato il dito contro Blocher, il quale non si è fatto pregare: «Dobbiamo dimostrare agli africani che la Svizzera non è un paradiso», dichiarando «totale approvazione per azioni di questo tipo». Gli svizzeri sono con lui, come attesta l’83% dei lettori del Blick, mentre la sinistra, le organizzazioni antirazziste e diversi blog sono sugli scudi all’insegna del «politicamente corretto».

Nessuno ha rilevato che quello spot non è stato trasmesso su richiesta elvetica, ma volontariamente dalla tv di Abuja e rientra nell’ambito di una campagna internazionale. Filmati analoghi sono stati trasmessi in Senegal, Gabon, Niger, presto in Camerun e nel Mali e anche in altri continenti, compresa l’Europa in Stati come l’Ucraina e la Moldavia.

È una campagna a fin di bene, sostenuta dalla Commissione europea e dalla Confederazione elvetica, come spiega al Giornale Jemini Pandya, dagli uffici dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) che ha sede a Ginevra.

«Il problema è che nei Paesi poveri, la gente non è consapevole di che cosa accade alla stragrande maggioranza degli immigrati clandestini. Non sanno in che condizioni vivono, né delle privazioni - spiega -. I figli hanno paura di dire la verità alle proprie famiglie, per timore di deluderli. E questo alimenta il mito dell’Europa come un Eldorado». L’unico modo per sfatare quella che, spesso, risulta una dolorosa e disumana leggenda è quello di comunicare con spot come quello trasmesso durante la partita di calcio. «Vogliamo che la gente sia informata prima di decidere di intraprendere un viaggio costoso e illusorio», osserva la Pandya.

«Il paradosso è che i giovani abbandonano i luoghi natii persuasi che da loro manchino le opportunità - aggiunge la portavoce dell’organizzazione -. In realtà in molti Paesi africani cresce l’offerta di posti di lavoro e spesso le aziende trovano difficoltà a reclutare dipendenti, soprattutto quelli con una formazione scolastica. Ma i giovani non sono al corrente e preferiscono tentare l'avventura in Occidente, lasciandosi affascinare dalle dicerie popolari».

Il problema, dunque, è la comunicazione, a cui lo Iom, fondato nel 1951 e sostenuto da 120 paesi, dedica molte risorse attraverso inserzioni pubblicitarie, articoli di giornali, siti e blog, annunci radiofonici, persino organizzando

rappresentazioni teatrali nei villaggi tribali più poveri. E naturalmente ricorrendo agli spot, con la convinta partecipazione dei governi locali, che in quelle immagini non trovano niente, ma proprio niente, di razzista.

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