Tanto zelo per finire all’inferno

«Cos’è il vero eroismo? È andare al lavoro con intatto zelo nonostante il timore della morte». È questo il proposito che rivaleggia con altre emozioni nella mente di Othman - il protagonista di Un uomo da rispettare di Nagib Mahfuz - mentre segue il funerale del suo direttore. Il capo che solo l’altro ieri «lavorava in ottima salute». Ma la morte non è solo sconfitta e perdita. Può essere anche profitto e premio. Oltre la morte (degli altri) può vivere un sogno. Un’ambizione pronta a involarsi sulle ali del caso - e cosa c’è di più «caso» di un direttore stroncato a colazione - per perseverare in una legittima scalata gerarchica.
Un uomo da rispettare è un romanzo uscito a puntate sul quotidiano al-Ahram, e appartiene all’ultima fase letteraria di Mahfuz, quella socio-esistenziale, in cui l’autore egiziano, primo scrittore arabo a vincere il premio Nobel, nel 1988, si interroga sulle vicende del suo Paese ma attraverso personaggi che rientrano a pieno titolo nell’anagrafe del mondo, in un museo universale. Othman è un impiegato statale divorato dall’ambizione di salire al vertice del ministero, di conquistare la direzione generale. Una «missione» sacra e fanatica al tempo stesso. Già all’inizio, quando entra nella «stanza infinitamente spaziosa» dell’archivio, il fantasma del potere lo ossessiona. Per lui è pronto a sacrificare qualsiasi altro aspetto dell’esistenza: «Nei momenti di disperazione spesso desiderava che gli morisse il cuore e la lussuria venisse domata così da poter proseguire spensierato il suo viaggio». Ecco il programma del giovane archivista. Del funzionario statale che supporta la sua vanità anche con la storia d’Egitto: «Persino gli stessi faraoni, pensava, non erano che funzionari incaricati dagli dèi di governare la Valle del Nilo».
Ma qual è il valore di questa assetata rincorsa? La risposta è nell’ironica filigrana che tesse tutto il romanzo. È in quel disincantato sorriso che le pagine strappano al lettore-inseguitore di un iperbolico egocentrismo. Si trova nel linguaggio «religioso» che Mahfuz giostra sapientemente a fronte di un reale, meschino, obbiettivo che nulla ha di santo, di missionario o divino. Nomine, promozioni, qualifiche, pensionamenti, amori aziendali, lotte politiche, quarto livello, terzo livello, alla fine sono solo le pareti di un inferno che Othman si è costruito da solo. Come ne esce è meglio non svelarlo.

Si può dire però che alla fine l’ironia diventa sterile. Di fronte ai sogni costretti alla resa cede il passo. Perché il «caso», che una volta ha aiutato Othman, è un acrobata. E non salta sempre e soltanto da una parte sola.

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