«Musorgskij non appartiene a nessuno dei gruppi musicali esistenti né per il carattere delle sue composizioni, né per le sue concezioni musicali. La formula della sua profession de foi artistica può essere chiarita dalla sua concezione, come compositore, del compito dell’arte: l’arte è un mezzo di comunicazione con gli uomini e non unfine. Da questo principio conduttore è determinata tutta la sua attività creatrice». È il principio di un realismo che spazza via tutti gli orpelli della tradizione: arie virtuosistiche, duetti d’amore, balletti, concentrandosi sulla nuda espressione della parola, dallo zar infanticida all’ostessa, dal boiardo traditore al contadino, ai monaci ubriachi e accattoni.
Così, Modest Musorgskij, l’autore del capolavoro che è tornato ad inaugurare la stagione del Teatro alla Scala parlava di sé stesso in terza persona nello schizzo autobiografico raccolto dall’amico e mentore Vladimir Stasov. L’unicità del suo capolavoro Boris Godunov è stata ammirata anche in questa edizione che ha voluto presentare la prima versione, quella del 1869. Peccato chela concezione architettonica prevista dall’autore, una delle più ardite soluzioni innovative, vale a dire la suddivisione in sette sceneincatenate senza soluzione di continuità, non sia stata rispettata, avendo introdotto un inopinato intervallo al termine della colorita Scena dell’Osteria. Interruzione che avrà fatto felici gli immancabili presenzialisti, i forsennati del selfie. Lo spettacolo predisposto dal regista Kasper Holten, in coabitazione con lo scenografo Es Devlin, era stato ampiamente illustrato, discettato, propagato con ogni mezzo, annunciando la centralità rivoluzionaria del personaggio del monaco Pimen, cronista simbolo della storia manipolata dal potere, rimasto piuttosto un monaco vagante con pennello e calamaio.
Ci si aspettava un impatto paragonabile alla prosa della martire della stampa Anna Politkovskaja, invece tutto si esauriva in una grotta-quinta formata da scritte, quasi geroglifici, e nello scorrere degli eventi attraverso simboli e disegni. Un colpo alla visione più tradizionale veniva dai (veri!) costumi di IdaMarie Ellekilde con i monaci presi dall’arcidiaconato di Repin, i patriarchi con planete intessute d’oro e gli sgherri manganellatori in black, poi purtroppo rimescolati nell’insalata temporale e nel mobilio da albergo russo a sei stelle. Nellamemoria tornava acuto il ricordo dell’icastica sobrietà e della concentrazione iconica con cui Toni Servillo aveva magnificamente affrontato il Boris 1869 in una non dimenticata inaugurazione del Comunale di Bologna.
La vasta distribuzione vocale sembrava disegnare la carta geografica dell’Impero di Boris quando studia con Fëdor l’immenso impero che spera passi al figlio. Il protagonista, beniamino scaligero unicofesteggiato da applausi a scena aperta, era Ildar Abdrazakov, basso più baritonale che viene da Ufa capitale della Baschiria costruita da Ivan il Terribile; Lilly Jorstad che interpretava la parte di Fëdor è nata nella caspica Astrakan sul Volga; Anna Denisova (l’altra figlia, Ksenija) è nata nella regione di Amur, Siberia orientale al confine con la Cina; la nutrice Agnieszka Rehlis è polacca, viennese il tenore Norbert Ernst (Sujskij), russo quasi-finnico di Vyborg il baritono Alexei Markov (cui spetta un recitativo breve ma sublime, quello del segretario della Duma Scelkalov); l’estone di ottima caratterizzazione Ain Anger era Pimen, pietroburghese il tenore trombettista Dimitrij Golovnin (il pretendente Grigorij, falso Dmitri); basso baskiro anche Stanislav Trofimov, un Varlaam molto alcolista, siberiana di Kemerovo l’ostessa Maria Barakova. L’altro vagabondo monaco beone Misail (Alexander Kravets) risulta essere ucraino. A tutti gli artisti calati in parti così originali e caratterizzate va un plauso collettivo.
A loro va aggiunto il riconoscimento al primo protagonista dell’opera, il coro, istruito da Alberto Malazzi, cui spetta la non facile successione a un maestro tanto amato come Bruno Casoni (che ha istruito il coro delle voci bianche). Il colore delle voci maschili non era certo quello dal peso grave e ricco dei russi o slavi, ma lo sforzo verso la potenza dell’emissione, se non lo scatto dellaflessibilità dialogica, va riconosciuto. A Riccardo Chailly va il merito di aver voluto e diretto con amore questa non facile partitura per un pubblico certo non dotato delle orecchie più raffinate o dei cuori più sensibili a comprenderla.
Speriamo almeno che il canto di dolore dell’Innocente, il santo folle che non vuole pregare per lo zar che paragona a Erode infanticida, sia penetrato fra gli sparati degli smoking e i gioielli delle madame!Sgorgate lacrime amare, piangi popolo russo. Sventura sulla Russia! Piangi popolo russo, popolo affamato.
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