Sapete come fanno in America? I curriculum nemmeno li aprono. Non che in Italia i datori di lavoro stiano lì a spulciare con la lente d’ingrandimento ogni singola riga, anzi, la maggior parte delle volte, inutile raccontare frottole, i “civì” finiscono accartocciati nel cestino.
La differenza è che titolari d’oltreoceano preferiscono conoscere i candidati a partire da ciò che di più intimo curano quotidianamente, ovvero il loro profilo social. Ebbene sì: un post, una foto, un video, un link potrebbero determinare il vostro destino professionale. Dunque, attenti a quello che pubblicate, il capo potrebbe restarne influenzato nella scelta del personale. O almeno così accade negli Stati Uniti dove, secondo un'indagine condotta dalla società di recruiting online Jobvite, l’87% dei dirigenti statunitensi consulta le schede LinkedIn, il 55% sbircia le pagine Facebook e il 47% scorre gli account Twitter.
Ed è semplice tracciare la personalità dell’aspirante dipendente sulla base di alcuni elementi apparentemente innocui, come la correttezza grammaticale di un commento: un refuso (che cattura l’attenzione del 72%) più o meno grave è in grado di stroncare la vostra carriera prima ancora di avviarla, oppure un articolo condiviso sul proprio profilo può far capire molte cose sulle vostre preferenze politiche o sociali (il 47% dei superiori apprezza chi è impegnato nel volontariato). Occhio a non mostrarvi come particolarmente amanti degli alcolici: il passo dall’essere considerati ubriaconi è breve quanto un bicchierino di whiskey.
Non lasciatevi troppo andare con la pubblicazione dei selfie, malvisti dal 25% delle aziende. E se tutti questi vincoli vi inducono a pensare che forse sarebbe meglio chiudere tutto, non fatelo: specialmente chi vuole lavorare nella sfera della comunicazione deve essere attivo sui social. Senza esagerare.
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