Gioca con gli occhi appannati, acquosi. Con la forza della disperazione assesta un micidiale ace. Attingendo alle residue energie spedisce una luccicante demi-volée nel campo avverso. Che poi sarebbe quello del connazionale Jim Courier, che lo scruta perplesso. Quarti di finale degli Australian Open del 1995. Melbourne. Il ragazzo che spara passanti e piange contemporaneamente è Pete Sampras. Sì: Perfect Pete. Quello che pare incapace di provare sentimenti sul campo. Il match si è incanalato nel quinto set. I primi due se li è accaparrati Courier: 6-7, 6-7. Ci può anche stare. Poi Pete ha recuperato terreno, perché la dedizione che arma il suo talento è pressoché incrollabile. Suo il terzo set: 6-3. Preso anche il quarto: 6-4. Si è arrampicato in cima a quella partita con l'animo rigato da sentimenti contundenti. Poi, sull'incipit del quinto, quei singhiozzi incontenibili, in mondovisione. Dureranno il tempo di tre game. Dieci minuti netti.
Per comprendere il motivo profondo di quel lancinante malessere serve andare a ritroso. Dal 1992 Pistol Pete viene allenato da Tim Gullikson, onesto racchettaro che si era disimpegnato specialmente a cavallo degli anni Sessanta e Settanta. Era nato come legame professionale, ma si era trasformato presto in rapporto sincero. Al punto che Pete, nei momenti di maggiore sconforto, si apriva raccontandogli cose che non aveva mai confessato a nessun altro. Gullikson era un mentore, un coach, ma prima ancora l'amico migliore che Sampras potesse desiderare. Giocavano a carte insieme dopo un match, Pete e Tim. Cenavano spesso insieme. Parlavano del tennis, del futuro e, in fondo, della vita intera. Seguendolo, Pete era diventato il numero uno del mondo. Al suo fianco aveva sollevato i primi cinque Slam.
Poi lo sconosciuto croupier si diverte a rimescolare il mazzo. Sul finire del 1994, è dicembre, Tim accusa per la prima volta una serie di convulsioni. L'episodio è preoccupante, ma dai primi accertamenti viene scongiurato il peggio: pare che abbia un coagulo di sangue congenito all'altezza del cervello. Niente per cui stare troppo tranquilli, s'intende, ma comunque gli fanno sapere che è una situazione gestibile. Tim parte così per Melbourne, al fianco di Sampras. Non sa che quelle avvisaglie sono premonitrici di un male terribile.
Mentre stanno preparando l'incontro del terzo turno, quello che vedrà Pete opporsi allo svedese Lars Jonsson, Gullikson crolla improvvisamente a terra. Lo trasportano di corsa in ospedale. Stavolta l'accertamento racconta una prospettiva dilaniante. Melanoma al cervello. Aspettativa di vita dai 3 ai 6 mesi. I successivi accertamenti svolti a Chicago riveleranno che i tumori sono addirittura quattro.
Quando Pete irrompe nella clinica australiana, Tim conosce già il verdetto. Evita però di comunicarglielo. Lo vuole concentrato e letale, come sempre. Il tennista non è convinto e incalza il resto del team. Quelli cedono al pianto, facendo intuire che deve trattarsi di qualcosa di grave, ma non rivelano nulla sulla malattia. Solo che poi Sampras origlia una conversazione tra alcuni coach poco prima del match dei quarti contro Courier. Riesce a distinguere soltanto alcune frasi. Sente dire "Tumore" e "cervello". L'addizione è inevitabile.
Pete entra in campo scosso. Funestato da una caterva di pensieri tetri. Cede i primi due set, ma poi afferra di nuovo il match. Sul sorgere del quinto, tuttavia, una frase pronunciata da uno spettatore in tribuna stappa tutte le emozioni represse. "Forza Pete, fallo per Tim!". Cinque parole che fanno da detonatore. Le lacrime diventano irrefrenabili. Pete continua comunque a giocare. Fa rimbalzare la pallina giallo fosforescente e prima di sollevarla in aria piange. Lascia partire un rovescio formidabile e poi singhiozza di nuovo. Ad un certo punto Courier gli si avvicina chiedendogli se preferisce proseguire il giorno dopo. No, non vuole. Arriverà fino in fondo e vincerà la partita, in un surreale alternarsi di lucidità sportiva e dilaniante disperazione.
Le favole però sono un'altra
cosa. Sampras perderà in finale da Agassi. Gullikson morirà nel maggio dell'anno dopo. Resterà quel coraggio estratto fuori spremendo le lacrime. Per sempre uno dei punti migliori della carriera di Pete.
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