Perché la violenza anti-ebraica di Amsterdam ci riguarda direttamente

I passanti per salvarsi gridavano "I’m not a Jewish", "Non sono ebreo!". È avvenuto nella città di Anna Frank

Perché la violenza anti-ebraica di Amsterdam ci riguarda direttamente

La caccia all’ebreo. Il pogrom anti-ebraico di Amsterdam ci riguarda direttamente, tutti. Perfino il re, Guglielmo Alessandro, lo ha ammesso, con «orrore e shock», telefonando al presidente israeliano Isaac Herzog dopo l’attacco scatenato nelle strade della capitale olandese dagli emuli di Hamas al grido di «Palestina libera!», e col pretesto di una partita di calcio.

I passanti per salvarsi gridavano «I’m not a Jewish», «Non sono ebreo!». Questo nella città di Anna Frank. E non è una questione fra tifosi, non c’entrano niente gli «ultras israeliani», come incredibilmente ha titolato «La Repubblica».

L’Ajax è la squadra del ghetto, i suoi tifosi sono noti come «i super ebrei» e allo stadio compaiono spesso la stella di David o la bandiera di Israele. È un paradosso rivelatore che le violenze siano avvenute approfittando di un incontro fra la storica squadra degli ebrei olandesi e il Maccabi, la formazione di Tel Aviv.
Gli attacchi dell’altra notte rappresentano un distillato di quanto accaduto e maturato in Europa per decenni, per non parlare degli ultimi 13 mesi, quelli della guerra scatenata da Hamas ed Hezbollah, cui Israele ha risposto (con durezza implacabile, certo).

È antisemitismo in purezza. Tutt’altro che inaspettato. Il rischio di antisemitismo, di cui tanto si è parlato, è diventato minaccia, e la minaccia è diventata una realtà concreta, in una continua escalation. L’odio antisemita ha dilagato. Incontrastato.

Incontrastato per timore, per incomprensione, per pavidità. Perché sostanzialmente condiviso, nella sua forma "socialmente presentabile": l’antisionismo. All’estrema destra, sì. Ma pure a sinistra, sempre più. E presso le classi dirigenti dell’islam politico organizzato, e spesso riverito, in Europa.

È così che le «piccole» persecuzioni, ignorate, sono diventate sempre più sistematiche, in città nelle quali gli immigrati arabi ormai sono ormai una grossa fetta della popolazione. In Francia le sinagoghe vivono nel mirino da molti anni. I bambini ebrei non possono frequentare scuole pubbliche. Interi quartieri sono off limits per le autorità. Nel 2018, una donna ebrea scampata alla shoah, Mireille Knoll, è stata uccisa, pugnalata a morte undici volte da un vicino musulmano «che conosceva bene". Era sopravvissuta al rastrellamento del Vélodrome d’Hiver e quasi 80 anni dopo anni ha trovato la morte colpita e bruciata in casa sua. Stessa matrice antisemita un anno prima: Sarah Halimi direttrice di un asilo nido e madre di tre figli, è stata gettata dal terzo piano del suo palazzo al grido di «Allah u Akbar». Nel 2012 quattro persone (tre bambini) erano state uccise a Tolosa all’ingresso di una scuola ebraica. Nel 2006 un ragazzo ebreo francese di origini marocchine, Ilan Halimi, aveva 24 anni, fu rapito e torturato per tre settimane da una banda islamista in un sobborgo. Ucciso, la targa che lo ricordava è stata vandalizzata ripetutamente.

Non c’entra il calcio con gli attacchi di Amsterdam, non c’entra la politica con questo orrore europeo 80 anni dopo la Shoah. È questione di odio contro gli ebrei, un’altra volta. Il virus è quello, anche se adesso prende la forma dell’ostilità «politica» per Israele, il cosiddetto antisionismo, paravento già di violenze e attentati, come quello alla sinagoga di Rome nel 1982, dove fu ucciso un bambino di due anni. «Un nostro bambino, un bambino italiano» ha detto il presidente Sergio Mattarella. Quanti conoscono il suo nome?

Amsterdam è l’approdo di una lunga scia di orrori. «Abbiamo deluso la comunità ebraica dei Paesi Bassi durante la seconda guerra mondiale e ieri sera abbiamo fallito di nuovo» ha detto il re d’Olanda al presiente israeliano, aggiungendo che quanto accaduto ricorda «tempi bui e tetri per il popolo ebraico».
Ma sbaglia chi pensa che questa faccenda, questo nuovo 7 ottobre in terra europea, riguardi solo gli ebrei. O che riguardi altri Paesi. Magari lontani. Magari il Daghestan russo, dove il 30 ottobre 2023 decine di persone hanno invaso la pista dell’aeroporto di Makhachkala cercando passeggeri ebrei su un volo proveniente da Tel Aviv. I dati dicono che gli atti di violenza antisemita sono aumentati esponenzialmente. Sono fra noi. E non si tratta di una «reazione» alla guerra al terrore che il governo di Gerusalemme combatte da 13 mesi per annientare le organizzazioni terroristiche che minacciano la sicurezza dei cittadini israeliani. No, il 7 ottobre era esso stesso violenza antisemita. Della stessa matrice, islamista.

Sbaglia chi pensa che non sia coinvolta anche l’Italia, che pure ha un’immigrazione più "acerba" e contenuta. I segnali ci sono stati, e ci sono. Nel 2017 una manifestazione nel cuore di Milano, un corteo contro Israele - ma c’è chi si ostina a definirli «pro Palestina» - ebbe il suo culmine nelle grida antisemite che minacciavano «morte agli ebrei». Nel Capodanno fra il 2021 e il 2022 si è visto un incredibile episodio di «Jihad sessuale» in piazza Duomo, paragonabile all’aggressione di decine di donne molestate a Colonia nel 2016.

E il 22 ottobre dello scorso anno, sempre a Milano, da un esagitato nutritissimo gruppo di manifestanti nordafricani (pro Pal, no?) si è alzato l’urlo «uccidiamo gli ebrei», o «mangiamo gli ebrei». Chi ha reagito? Come? Ci sono state manifestazioni di solidarietà? «Anche il 25 aprile - racconta Davide Romano, direttore della Brigata ebraica, parte integrante della Liberazione - a Milano siamo stati oggetto di aggressioni verbali e fisiche».

«Mi domando - aggiunge - cosa stanno facendo le istituzioni locali e nazionali per prevenire che in Italia avvengano fatti gravi come quelli accaduti ieri in Olanda, e negli anni scorsi in Francia, Germania, Inghilterra, Svezia». «Se il governo italiano sta lavorando bene dal punto di vista della difesa dei punti sensibili (ebraici e non) - osserva - è illusorio pensare che ciò possa essere sufficiente. Serve anche una reazione culturale».

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