Thiel, il tecno-utopista: l'innovazione è libertà

Il consigliere di Trump spiega come realizzare il sogno libertario e perché la globalizzazione è in declino

Thiel, il tecno-utopista: l'innovazione è libertà

Peter Thiel fu, non molti mesi fa, l'unico fra i grandi imprenditori della Silicon Valley a finanziare e appoggiare pubblicamente la campagna di Donald Trump, il quale appena eletto l'ha subito nominato proprio consulente per la tecnologia. Ha cominciato a fare il suo lavoro, portando alle riunioni del nuovo presidente i suoi amici e compagni di affari e invenzioni, tra i quali un oppositore di Trump come Elon Musk, il fondatore di Tesla, l'avveniristica fabbrica di auto elettriche. Ha sdrammatizzato la famosa decisione di Trump di bloccare l'immigrazione dai Paesi arabi più coinvolti col terrorismo, facendo presente che non si trattava di un bando religioso contro l'islam, ma solo dell'inizio di una politica dell'immigrazione più attenta e sensata. Poi, dopo qualche settimana, ha comprato una splendida proprietà in Nuova Zelanda, e chiesto e ottenuto la cittadinanza nella stessa, spiegando nella sua richiesta ufficiale: «Nel continuare le mie opportunità di affari internazionali e i miei personali impegni filosofici e di beneficenza, sono felice di affermare che non ho trovato un Paese più linea con la mia idea di futuro della Nuova Zelanda». Per questo, da accanito lettore de Il Signore degli Anelli, l'ha chiamata Utopia e vi sta investendo milioni di dollari, fondandovi aziende con nomi ispirati all'amato Tolkien. E infine ne ha preso la cittadinanza, dopo quella americana, che naturalmente mantiene.

Cosa intenda poi farne, visto che stare fermo gli riesce difficile, è materia di discussione sulla stampa internazionale, e anche nel mondo degli affari. L'ipotesi più suggestiva è che proprio nel grande Oceano Pacifico intenda installare uno dei suoi progetti più amati: una Seastead (l'idea originaria è di Patri Friedman, ex ingegnere di Google e nipote dell'economista libertario Milton Friedman). Si tratta di grandi isole artificiali, completamente autosufficienti dal punto di vista ecologico, nelle acque internazionali. Piccoli Stati autogestiti, con governi leggeri e tasse, burocrazia e controlli leggerissimi e non invadenti. Insomma il sogno di un libertario postmoderno, che invece di chiudersi in una casetta a Walden come fece 170 anni fa Henry D. Thoreau va in mezzo al Pacifico a progettare viaggi interstellari e soprattutto nuove comunità umane, capaci di vivere in modo ecologicamente sensato e mettendo la tecnologia al servizio dell'uomo anziché il contrario.

È la sua passione, la sua Utopia, cui non smette di pensare. Però, dalla sua solidissima formazione scientifica, ha ammesso un paio di settimane fa al New York Times che «dal punto di vista ingegneristico non è per ora fattibile. È ancora molto lontana nel futuro». Tuttavia ci pensa, e ci sogna. Intanto guadagna (e a volte perde) milioni di dollari, senza battere ciglio, come appunto chi ha molto altro a cui pensare, oltre all'importantissimo denaro. Tutto ciò fa di lui un esemplare abbastanza unico nel capitalismo contemporaneo, tipo il nostro Adriano Olivetti (entrambi protestanti), con la stessa passione per lo sviluppo tecnologico e il sogno di comunità territoriali e politiche più umane, ma anche scientificamente avanzate. Grandi capacità imprenditoriali e insieme respiro filosofico. Nato a Francoforte 59 anni fa, a un anno segue il padre (ingegnere) negli Usa, e nei primi cinque cambia 7 scuole elementari e diversi Paesi, tra i quali il Sudafrica e la Namibia. A 5 anni arriva a Foster City, città modello di 30mila abitanti, decima negli Usa dal punto di vista della qualità della vita, nei pressi della Silicon Valley.

In tutto questo viaggiare, ha già imparato a odiare l'autoritarismo prepotente di certe maestre sudafricane con le loro bacchettate sulle dita, e soprattutto a stare da solo. Senza tv, proibita dai genitori fino al ginnasio (come vuole anche il metodo steineriano). È un bambino introverso, geniale in matematica, e campione nazionale di scacchi, in Sudafrica decorato con l'adesivo born to win (nato per vincere) sulla giacchetta della premiazione. Da ragazzino, attacca e rilegge infinite volte Il Signore degli Anelli, e più tardi Solzhenitsyn.

All'università, naturalmente, viene ammesso a Stanford, fortezza del sapere del bacino meridionale di San Francisco, fucina di gran parte delle teste della Silicon Valley. Lì nascono le sue più preziose amicizie e alleanze, che continuano tuttora: quasi tutti maschi, conservatori e intelligentissimi in matematica e nel ragionamento logico, ha notato George Packer nella sua famosa intervista del New Yorker (2011). A Stanford nascono anche le sue più feroci rabbie contro l'attuale sistema educativo Usa, che verranno raccolte nel saggio The Education of a Libertarian (L'educazione di un libertario), che pubblica nel 2009 sul sito Web del Cato Institute. Lì spiega come «oggi, il grande compito per un libertario sia trovare una via di uscita dalla politica in tutte le sue forme, dalle catastrofi totalitarie e fondamentaliste alle scriteriate demolizioni che ispirano le cosiddette socialdemocrazie». Una di queste è secondo Thiel la demolizione delle differenze e del loro valore sotto la copertura ipocrita del multiculturalismo, un'invenzione del totalitarismo politically correct per distruggere le personalità individuali e intere culture. Nel libro The Diversity Myth (Il mito della diversità) scritto nel 1995 con David Sacks, suo compagno di Stanford, Thiel elenca tutte le ipocrisie e ingiustizie praticate nelle università americane in nome del multiculturalismo politicamente corretto, mostrandone gli effetti disastrosi sul piano della valutazione del profitto e del merito, e quindi sulla formazione scientifica e sulla lealtà personale. Concludendo che «l'antidoto al multiculturalismo è la civiltà», con le sue regole e la sua giustizia, contrapposta alla manipolazione opaca del politically correct.

Da anni Thiel denuncia il progressivo declino della globalizzazione, una sorta di politicamente corretto mondiale a favore di burocrazie statali e aziende decotte e poco produttive, finanziato con l'espansione illimitata del debito pubblico. E lo contrappone alla forza trasformatrice della tecnologia, che avrebbe potuto essere un motore per il capitalismo molto più solido degli attuali consumi. Occorrevano però energie e visioni che sono invece state inghiottite appunto dalla sonnolenta distruttività delle socialdemocrazie dei Paesi occidentali sviluppati. La sua contrarietà alla globalizzazione fa anche parte della sua alleanza con Trump, un altro che non ci crede affatto, e non vede l'ora di uscire dai vari trattati commerciali e politici che cercano di tenerla in piedi. La globalizzazione, spiega nell'intervista al New Yorker, «si ispira all'evoluzione naturalistica, spalmandola sul pianeta in modo uniformizzante, e continuando a copiare quello che già c'è. La tecnologia invece si ispira alla miracolosa creazione sovrannaturale: si dedica alla creazione di cose nuove, che non sono mai esistite».

È questa tecnologia creativa, capace di cambiare

veramente il mondo che secondo Thiel può dare nuova spinta allo sviluppo economico e civile. Per questo, in Da zero a uno ripete ai suoi studenti la raccomandazione de Il Signore degli Anelli: «Percorrete i sentieri nascosti».

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